Mentre la giusta lotta all'evasione fiscale tocca livelli di attenzione mediatica molto alti, non si vuole vedere che sono i comportamenti persecutori e scorretti dell'amministrazione finanziaria perpetrati a danno di contribuenti onesti la vera causa della fuga delle imprese e dei capitali dall'Italia.
"Accertamenti fiscali più attenti sui gruppi societari con imprese fuori dai confini italiani" intitolava minaccioso un articolo de Il Sole 24 Ore, il 17 agosto scorso.
Si tratta di un approccio che a caldo piace molto, perché lascia presagire che finalmente s’interviene sui "furbastri" che usano complesse architetture internazionali per eludere le imposte o erodere la base imponibile. Qui si vuole invece dimostrare l'ingiustizia e persino la dannosità di questa tesi e di questo approccio, che, a ben vedere, è una delle cause della fuga dei capitali privati dal nostro Paese. E del declino della nostra competitività.
Pare intanto opportuno distinguere fra le partecipate estere che svolgono segmenti di produzione, da quelle che sono impegnate in particolari servizi, come attività finanziarie, registrazione di attività immateriali come marchi e brevetti, attività di mero trading non domestico. Per le prime dovrebbe essere chiaramente esclusa ogni forma di attenzione, imponendo solo che le operazioni inter company siano regolate secondo il principio del prezzo normale, cosa che peraltro in apparenza oggi già avviene. Semmai occorrono regole più precise e automatiche, non di tipo vessatorio, per definire qual è il valore normale.
Anche per le seconde, che trovano spesso motivazioni industriali più tenui, bisogna fissare regole precise sempre sui valori normali di trasferimento, eventualmente basandole su ruling preventivi, cosa meno semplice rispetto al primo caso. Si avrà così la certezza che in caso di controlli, in entrambe le fattispecie, le verifiche di congruità dei prezzi di trasferimento non divengano occasione per bizantinismi a danno dei contribuenti, che altrimenti perdono tempo a sostenere loro ragioni (evidenti) e sono poi costretti a cercare la loro difesa attraverso il processo tributario.
Quest’ultimo è diventato nel nostro Paese la modalità ordinaria di soluzione delle controversie con il Fisco. A ciò si aggiunge la grave ingiustizia, tutta italiana, di non vedere quasi mai riconosciuto il costo delle spese del giudizio a carico dell'Amministrazione finanziaria quando risulta soccombente. Amministrazione finanziaria che così contesta spesso quasi tutto senza doverne mai rispondere. Inutile dire che tutto ciò ha causato un disgusto del contribuente onesto verso un sistema che pare inventato dallo sceriffo di Nottingham, concorrendo alla rottura del patto fra stato e cittadino. Nessuna discrezionalità deve essere lasciata all'Amministrazione finanziaria! Nessuna impunità alle scorrettezze da essa eventualmente commesse.
E va certamente evitato il rischio di disincentivare la riorganizzazione delle attività produttive su scala internazionale, pena la perdita della capacità competitiva delle imprese italiane per fatti che esse non possono governare ma solo subire da uno Stato che troppe volte sembra trattarci come sudditi, non come cittadini, soprattutto in materia fiscale.
Semplicità delle norme, ridotta discrezionalità dell'amministrazione finanziaria e assunzione di responsabilità per le colpe gravi, presunzione di correttezza del comportamento delle imprese, riduzione del carico fiscale sulle attività produttive: sono i pilastri non solo di uno Stato di diritto, ma di un Paese che garantisce un ecosistema con regole di mercato per le imprese e che sappia essere competitivo.
Viceversa, “la frode fiscale non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri reati finché le leggi tributarie rimarranno vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l’unica arma di difesa del contribuente contro le esorbitanze del fisco”. Opinione di un politico demagogo anti sistema e disfattista?
No, Luigi Einaudi, Corriere della Sera, 22 settembre 1907.