Il Retail è Experience!

Dalla vendita di prodotti e servizi, all’offerta di un’esperienza disegnata su un business model distintivo. Qui il vantaggio competitivo del brand (da Mark Up n. 276)

Siamo nel 1998. Joseph Pine e James Gilmore pubblicano un articolo in cui si preconizza che, dopo l’economia agraria, quella industriale e dei servizi, all’orizzonte è prossima l’alba dell’economia dell’esperienza. Un concetto che, pur non rappresentando una novità assoluta neppure per l’epoca, viene per la prima volta portato alla ribalta e descritto con efficacia e semplicità. L’economia dell’esperienza è un contesto economico in cui i brand interpretano i loro prodotti e servizi all’interno di eventi. Questi devono rimanere così impressi nella mente delle persone che li vivono, da diventare parte integrante del prodotto stesso. Ergo: senza esperienza memorabile, il prodotto perde una parte consistente della propria identità.

Le tesi macroeconomiche di Pine e Gilmore sono in continuità con il percorso economico, sociale e tecnologico dei Paesi evoluti e dipingono uno scenario consequenziale, dove i salti quantici sono la ripercussione dell’utilizzo delle tecnologie in tutti i settori. Con la maturazione dei mercati si entra in una fase di sovrabbondanza dell’offerta, ma con una relativa scarsità della domanda. Simultaneamente, si assiste a una crescita della presenza di tecnologia digitale in tutti i contesti che, in molti casi, trasforma il valore veicolato dalle molteplici categorie merceologiche e di servizio. Il consumatore progressivamente tende a fare evolvere i contenuti cercati, portando la domanda a un livello superiore: l’experience. L’esperienza è il drive della trasformazione del valore ed è essenziale almeno per due motivi: permette di fuggire alla banalizzazione e commodizzazione di alcune categorie, salvaguardandone valore e marginalità, e permette una trasformazione dell’economia da bacini ormai asfittici in nuovi contesti più fertili. Se le tesi di Pine e Gilmore sono accettate, la conseguenza è che l’esperienza non si ferma all’entrata in possesso del brand prodotto, ma prosegue con il suo utilizzo e, possiamo aggiungere, anche con l’ultima fase di smaltimento. È come se in macroeconomia si consolidasse una legge unificante che in fisica non si è ancora formulata: passando dall’economia lineare (marketing-prodotto-produzione-vendita-uso-discarica) a quella circolare, l’esperienza cercata dalla domanda copre un arco di circolarità completo!

Tornando alla trasformazione del valore riconosciuto dal consumatore al brand grazie all’experience, gli esempi sono molteplici. Uno emblematico e citato dal libro “L’economia delle esperienze” dei due autori, è quello del caffè Florian di Venezia, dove un caffè costa 15 volte in più rispetto a quanto il prezzo medio di mercato fissa. Nonostante il prodotto “tazzina di caffè” non cambi, ciò che vale è l’esperienza di consumo in quel contesto riconosciuto dalla domanda.

Dal primo articolo di Pine e Gimore ad oggi sono passati 21 anni, un’era geologica. La produzione è sempre più localizzata in immense farm globalizzate con una precipitazione della capacità di generare reddito diffuso. L’economia sul territorio è sempre più legata al retail che vive in un esasperato contesto competitivo. A dare una dimostrazione lampante della valenza dell’economia dell’esperienza è l’esplosione del food service che, attraverso concept sempre più innovativi, riesce a dare al momento di consumo una gratificazione memorabile: un panino è sempre un panino, ma oggi si vende l’esperienza di consumo del panino! In più la tecnologia ha realizzato un cambiamento che, al tempo dell’articolo preso ad esempio, non era immaginabile: l’iper connessione con dispositivi mobili “embedded” alle persone. Questo tipo di realtà chiede al marketing del retail un approccio molto più sistemico circa la sua progettazione, legato essenzialmente all’esperienza che si vuole offrire. Gli studi più attuali dei maggiori player di consulenza mondiale mettono in evidenza come i touch point siano un punto di snodo interattivo e abilitante o realizzante dell’esperienza offerta al consumatore. Semplificando (ma non troppo) si può dire che i brand puntano a sviluppare non solo un prodotto, ma un’esperienza distintiva: una brand experience per l’appunto. Questa è ciò che determina oggi il valore aggiunto e quindi il vantaggio competitivo.

Secondo i maggiori esperti, una brand experience deve essere disegnata sull’intero life cycle circolare. Nel retail si parla sempre di più di design dell’esperienza intesa come progettazione complessiva della relazione tra i clienti e il brand nel vissuto atomico (la giornata, customer journey) e globale (circolarità, life cycle interaction). Anche l’omnicanalità diventa un elemento derivato con questa accezione, dipendente da quale esperienza si vuol far vivere. Una schematizzazione semplificata vede i touch point come elementi cardine da cui si dispiega l’experience. I touch point sostengono la customer journey sia in fase di ingaggio per il drive to store (fisico o digitale, secondo design), sia nella post presa di possesso in fase di customer care. La shopping experience che si accende dai touch point è un luogo nevralgico della retail experience dove si costruisce il vantaggio competitivo. È interessante osservare che, generalizzando il concetto, pagamento e presa di possesso, sia che avvengano instore sia in delivery, possono essere considerati ultimo miglio. La consecutività naturale che procede dai touch point verso la shopping experience, poi payment, presa di possesso e uso, può essere circuitata sui touchpoint in funzione di quanto previsto in sede di design. Diversi retailer, hanno già espresso design particolarmente innovativi. Un esempio è Nike che nel flagship store di Los Angeles mette a disposizione tapis roulant per provare le scarpe in un’ambientazione che favorisce la nascita di community. Oppure Apple che nel punto di vendita di Milano focalizza l’attenzione sull’uso dei prodotti con un teatro dimostrativo, nascondendo la fase di pagamento (non ci sono casse).

Molti store con declinazione esperienziale sono analizzati nei casi esposti su Gdoweek dall’Osservatorio Retail Observa a cui si rimanda per approfondimenti.

Un’esperienza unica senza soluzioni di continuità tra i canali

L’omnichannel. Rischio oppure opportunità? Entrambe le cose. Sandro Castaldo, professore di marketing della Bocconi fa il punto della situazione.

Il ruolo del retail muterà in futuro?

Il ruolo della distribuzione evolve rapidamente nell’attuale contesto, ove si moltiplicano i touch point e i canali fisici e virtuali. Questa proliferazione di punti di contatto e di esperienza modifica radicalmente il ruolo del punto di vendita. Attraverso una re-interpretazione del ruolo e dei servizi offerti dai diversi canali, le imprese sono infatti oggi in grado di creare nuove dimensioni di valore per il cliente.

Il cliente è il fulcro di questa evoluzione?

Certamente. I canali, infatti, non sono più sostitutivi, ma contribuiscono in una prospettiva omnichannel a creare valore per il consumatore, seguendo il suo journey e partecipando alla creazione di una seamless experience.

Quindi occorre interpretare il bisogno della domanda?

I consumatori passano tra canali e device differenti e le aziende devono essere in grado di fornire un’esperienza unica: la sfida che le imprese hanno di fronte è proprio quella di integrare i canali creando circoli virtuosi che avvantaggiano il negozio fisico, il web, il mobile e tutti gli altri touchpoint.

In questo contesto il punto di vendita assume un nuovo ruolo, non solo di tipo logistico, ma sempre più di tipo esperienziale e relazionale.

Un esempio concreto?

Nike ha predisposto numerosi touchpoint e diverse interfacce per l’interazione con la clientela: punti di vendita fisici, sito web aziendale abilitato all’eCommerce B2c per i vari brand incluso NikeId (store che permette la mass customization dei prodotti), piattaforme partner per l’eCommerce (ad esempio Amazon, Zappos, TMall di Alibaba), apps, social media, call center e chat per citare i principali Nike ha integrato i negozi brick & mortar con il sito ed ha saputo cogliere le opportunità per la personalizzazione dei prodotti, con il lancio del programma NikeId. Ha sviluppato anche specifiche apps volte a generare valore per il cliente nelle diverse fasi del customer journey. Per esempio, Nike Training Club fornisce guide per l’allenamento e permette di confrontare i progressi con il proprio network di riferimento, nonché di acquistare specifici articoli sportivi. L’esperienza offerta comprende acquisti online nello store con iPad, l’utilizzo di soluzioni di realtà aumenta, manichini digitali, ma anche sistemi per provare le scarpe come tapis roulant per il test delle scarpe. Alla finalità di aumentare l’engagement del cliente durante il processo d’acquisto rispondono anche gli schermi interattivi multi-touch che Nike ha installato all’interno sia di punti di vendita diretti (es. flagship store di Berlino) che di alcuni rivenditori autorizzati (es. Sportscheck a Monaco).

La gestione dei touch point è centrale nell’esperienza

Il concetto di omnicanalità ha diverse declinazioni e interpretazioni. Diventa necessaria un’attenta valutazione per determinare un’esperienza che sia profonda ma, non necessariamente, massimamente ampia su tutti i touch point. Il punto di vista di Fabrizio Valente, founder e Ad di Kiki Lab.

Facciamo il punto sul concetto di omnicanalità.

È un paradigma ormai consolidato e considerato imprescindibile. Lo abbiamo assunto senza critiche direttamente dagli Usa, ma merita considerazioni attente. Oggi, essere in grado di consentire a ogni cliente di interagire su tutti i canali in modo integrato e “full feature”, presenta dei costi e degli impegni che la maggior parte dei retailer non può permettersi, soprattutto tra quelli italiani.

Qual è quindi l’approccio migliore?

Competenze, investimenti, persone e tempo. Questi sono gli ingredienti necessari per gestire bene un canale. Asset pesanti che richiedono focalizzazione.

Per esempio, su quelli digitali diventa importante fare delle scelte che siano coerenti con il tipo di esperienza che si vuole offrire ai propri clienti. Arriviamo a quello che io definisco multicanalità selettiva.

Entriamo nel merito.

Occorre individuare i canali chiave per il target e investirvi in modo dinamico. I canali digitali mutano la loro valenza velocemente, per cui occorre essere in grado di utilizzarli opportunisticamente, ma anche procedere a disinvestire velocemente quando le situazioni cambiano.

Una strategia volta a indirizzare il consumatore?

Esattamente. Il drive to store è sicuramente molto interessante come strategia di marketing. Prendiamo come esempio il network di ottica Visual Ottica. È stato attuata una campagna online in cui si propone all’utente un mini test sullo stress visivo agganciato ai punti di vendita. Questa semplice campagna ha generato traffico aggiuntivo nei negozi. Le possibilità di drive to store dal digitale multicanale focalizzato, generano un’esperienza distintiva per i brand.

Un retail narrativo e immersivo. Così gli spazi si reinventano

Il retail oggi è multiforme e omnichannel e richiede una reinvenzione degli spazi in cui si esprime. Per Paolo Lucchetta, architetto e designer, lo spazio in cui l’esperienza vive e si sviluppa è oggi definita dai concetti di narrazione e immersione.

Quali conseguenze ha prodotto il cambiamento del retail in termini di esperienza offerta alle persone?

La trasformazione del settore ha generato nuove opportunità che però sono correlate alla capacità di dare una nuova interpretazione agli spazi e nuovi significati. Il concetto di spazio di vendita ha subito una scissione concettuale dal retail, che oggi è qualcosa di molto più articolato e complesso. Lo spazio va ripensato.

È come se lo spazio di vendita fosse solo una parte del retail?

Sì, e gli esempi di questa nuova dimensione non mancano. Come è noto, recentemente Dolce & Gabbana ha sbagliato la modalità di comunicazione sul mercato cinese, offendendo involontariamente la cultura locale. Il risultato non è stata la chiusura dei negozi fisici, ma l’estromissione da piattaforme come Tmall e Jd.com. Questo è un chiaro segno che il retail vive oltre lo spazio di vendita.

Come devono evolvere gli spazi dedicati al retail?

In linea generale, possiamo dire che il percorso evolutivo degli spazi di vendita è quello di rendere visibile all’interno di essi il background qualitativo del brand. E questo genera un’esperienza di valore. Prendiamo come esempio École de l’Amour di Gucci, una scuola per gli artigiani. È molto interessante il fatto che questo nuovo progetto sia un percorso di formazione artigianale specializzata in diversi indirizzi nel contesto di Gucci Equilibrium, la piattaforma dedicata alla sostenibilità dello sviluppo del brand.

E questo valore diventa parte dell’esperienza che il brand offre alle persone. La sintesi è che il punto di vendita deve diventare il luogo dove si vive l’emozione che un brand punta a dare. Un’emozione che deve essere distintiva. In questo modo il prodotto si eleva dai suoi significati strumentali per diventare un oggetto con delle unicità.

Lo spazio dove vive il retail come luogo esperienziale. Un obiettivo non di semplice raggiungimento …

Qui si impatta con l’esperienza concreta che le persone devono poter vivere nel punto di vendita. E allora si può dire che una strada sicuramente da percorrere è quella di rendere questi spazi a forte connotazione narrativa e immersiva. Se prima potevamo pensare che il design fosse un elemento estetico e statico, quasi indipendente dal suo contenuto, oggi è sempre più chiesto di interpretare queste due caratteristiche.

La narrazione determina l’univocità dell’experience, mentre l’immersività crea dei presupposti per rendere percepibile l’esperienza stessa.

Delivery e logistica, un tratto di value chain dirimente

L’eCommerce inteso come semplice acquisto online è un concetto superato. O meglio da integrare. Nel processo di delivery il merchant deve estendere l’azione interattiva con il consumatore. Il caso di Zalando citato da Alberto Grando, professore di Production and Operations Management presso l’Università Bocconi, introduce una fase della shopping experience fondamentale.

L’eCommerce cresce a due cifre anche in Italia. Qual è il punto debole del canale elettronico?

Nel 2017 l’eCommerce in Italia ha generato un giro di affari di 24 miliardi di euro (+17% su 2016) per 22 milioni di e-shopper (+10% su 2016). Di questi 12,2 miliardi di euro (52%)
legati ai prodotti, mentre il resto sono servizi. Il dato significativo è che nel 2017, per la prima volta, i prodotti crescono (+28%) più dei servizi (+7%). E cresce anche la domanda di reverse logistic, la gestione del reso.

Perché questo è un versante critico della shopping experience online?
Cominciamo con il dire che il diritto di reso è inalienabile per il consumatore. Ma è anche una leva fondamentale della value proposition del merchant, tanto da farne un elemento di vantaggio competitivo.

Il Rapporto Logistica e Packaging per l’eCommerce di Netcomm 2018, afferma che l’eShopper evoluto ricerca tra le prime informazioni quelle relative alla consegna e alla gestione del reso, mentre l’acquirente occasionale privilegia i servizi di consegna a valore aggiunto (con sovrapprezzo). Per il 70% degli e-shop la consegna è gratuita.

Venendo a un caso concreto, tutto ciò che azione ha generato?
Per esempio, di recente Zalando ha offerto ai propri clienti la possibilità di pagare l’acquisto 10 giorni lavorativi dopo, garantendo la possibilità di reso gratuito.

Questo tipo approccio permette di offrire la prova del prodotto. È un tipo di offerta che si può concretizzare solo con un sistema di gestione dei resi efficiente, a testimoniare l’importanza di questa fase della shopping experience. Ma c’è di più. Mentre nei negozi fisici i resi sono pari a circa il 8-9%, nell’online oscillano dal 15% al 30% con picchi del 40% nel settore abbigliamento (fonte: Associazione European Ecommerce, 2017). Il 48% di chi ha comprato online negli ultimi 12 mesi ha restituito almeno un ordine (fonte: Narvar)

Numeri che impattano sul conto economico?
Senza dubbio. I resi hanno ovviamente picchi stagionali (come nelle feste Natalizie, dal Black Friday fino al 10 gennaio): Ups ha rilevato negli Usa il 5 gennaio un picco da 1,3 milion di pacchi resi e lo ha denominato il National Returns Day. Secondo uno studio recente la crescita dei resi ha generato un impatto negativo sulle operations, sul magazzino e sui margini di profitto. Il 33% dei venditori lascia gratuitamente il reso ma fa pagare la consegna, mentre il 20% aumenta il prezzo dei prodotti.

A tutto ciò si somma il fenomeno dei serial returner, pari al 40% degli e-shopper: il 30% degli acquirenti compra deliberatamente più di quanto necessiti e il 20% (uno su 5) più versioni dello stesso prodotto (colori e taglie) per restituire quanto non acquistato. Tuttavia, le ricerche più accreditate evidenziano che se il reso fosse a pagamento, il 50% degli e-shopper non acquisterebbe.

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