Il ruolo del retail nell’italia di domani

ECONOMIA & ANALISI – La distribuzione moderna esprime un modello d’impresa compatibile con le trasformazioni che dovrà mettere in campo il Paese per evitare il declino (da MARKUP 224)

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Una politica di lungo respiro non c'è. Per ora ci sono solo due soggetti che si contendono i rimasugli di un'economia senza prospettive: il pubblico e il privato. I motivi di tale disarmo è l'oggettiva difficoltà nell'ideare misure che possano cambiare la situazione in un contesto che non ha margini di manovra, stritolato da una parte dal debito pubblico e dall'altra dal blocco granitico con cui ruoli e posti di comando sono mantenuti da una classe dirigente (pubblica e privata) fuori epoca.
Dovrebbe apparire urgente una discussione allargata sul tipo di economia da costruire perché è condiviso che non si tornerà più indietro e che non riavremo distese di capannoni ferventi di lavoro organizzato su più turni. Tuttavia finora il Paese non ha dato segni di sapersi adattare ad un nuovo scenario e questo è il segnale più allarmante.

Idee poco chiare
Dovendo pensare a una nuova economia, un primo passo possibile è individuare quali possano essere i settori strategici per il Paese. È opinione condivisa che ve ne siano almeno quattro dalle grandi potenzialità e riconosciuti da tutti i mercati: l'agroalimentare, l'arredamento, l'abbigliamento e l'automazione industriale. A questo si aggiunge il turismo che però deve scontare la scarsa attitudine degli italiani nel primeggiare nei servizi (e i grandi investimenti richiesti per trasformare un'industria obsoleta - figlia degli anni '60 - in qualcosa di moderno). Se i mercati ci tributano successo in quanto indicato, appare interessante osservare il punto di vista della classe dirigente pubblica. Dal 2011 è attivo il Fondo Strategico Italiano, una holding partecipata dal Ministero dell'Economia e delle Finanze con la Cassa Depositi e Prestiti e da fondazioni di origine bancaria (80,1% e 18,4% rispettivamente). La mission dichiarata è investire in imprese di “rilevante interesse nazionale” che abbiamo un fatturato non inferiore a 240 milioni di euro e oltre 200 dipendenti. I settori sono: 1) difesa, 2) sicurezza, 3) infrastrutture e pubblici servizi, 4) trasporti, 5) comunicazioni, 6) energia, 7) assicurazioni e intermediazioni finanziarie, 8) ricerca e alta tecnologia. Nessuno dei quattro settori riconosciuti dal mercato (ripetiamo agricoltura, abbigliamento, arredamento e automazione industriale) è compreso. Tranne il punto 7) e 8), gli altri sono settori a valenza abilitante, necessari per ogni moderna economia. È tautologico che essi debbano sostenere il Paese in modo efficiente, sicuro al minor costo possibile. Si tratta di settori che spesso hanno una connotazione statale e non vivono in un contesto di vera concorrenza (se non di confronto internazionale).
Le domande sono: l'interpretazione che la classe dirigente governativa dà ai settori strategici per l'economia del Paese è adeguata ai tempi attuali? Offre prospettive di ampio respiro? È possibile pensare a un futuro in cui dalla manifattura si possa passare all'industria della difesa, della sicurezza, delle infrastrutture o puntare sull'energia come valore aggiunto?

Il costo dell'assenza
La strategicità dei settori produttivi e di servizio, sia dichiarata, sia indicata dai mercati, soffre da anni dell'assenza di una politica industriale che ne possa affermare il ruolo. Due esempi recenti lo dimostrano. Il primo è Parmalat, azienda appartenente all'eccellenza agroalimentare italiana, acquisita nel luglio 2011 dai francesi di Lactalis dopo essere stata risanata dal commissario Bondi. Il secondo è Telecomitalia, passata alla spagnola Telefonica dopo sei anni di gestione Bernabé, nonostante appartenga a un settore strategico.
Parmalat è stata acquisita con le casse piene (grazie alle azioni revocatorie della magistratura) ed è stata un grande affare per i francesi. L'azione di risanamento aveva realizzato una situazione in cui vi erano le premesse per andare sul mercato e acquisire imprese concorrenti. Se Parmalat fosse diventata più grande non sarebbe stata scalabile. Tuttavia non si poteva pensare di delegare a un commissario amministrativo il futuro strategico di un'impresa così importante. E così Parmalat è andata perduta. Telecomitalia rientra nei settori dichiaratamente strategici eppure è stata ignorata negli anni dalla classe politica con il risultato di non aver effettuato per tempo lo scorporo della rete. Anche in questo caso l'assenza di una precisa politica industriale ha comportato la perdita dell'impresa. Questa latitanza delle politiche industriali, il Paese non può più permettersela.

Allegati

224_Competizione-Retail

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