Immobili commerciali: rapporti tenant/landlord verso fluidità d’azione?

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Sugli immobili commerciali l’eterogeneità di sentenze contribuisce a incentivare le parti alla ricerca di una sintesi condivisa che consenta loro di trovare

Nel settore degli immobili commerciali come centri commerciali, degli outlet centre e dei retail park, tutti gli operatori, chi più chi meno, hanno dovuto fronteggiare, e risolvere, problemi a cui non erano tecnicamente preparati, oltre che mentalmente pronti, data la mole di accordi rimessi in discussione da esigenze sanitarie, da un lato, e dai conseguenti provvedimenti governativi emergenziali, dall’altro.

Un confronto inedito sugli immobili commerciali

Proprietà e affittuari hanno dovuto confrontarsi con un presunto vuoto legislativo, testimoniato dalle non poche circostanze in cui la giurisprudenza di merito si è trovata ad affermare che “quando il legislatore, nell’emergenza della pandemia Covid19, ha voluto introdurre la possibilità (non l’obbligo) di rinegoziare le condizioni economiche di un contratto, ovvero ridurre definitivamente a determinate categorie di imprenditori i canoni di locazione per un certo numero di mensilità, lo ha detto espressamente, come nei casi delle concessioni degli impianti sportivi pubblici e delle locazioni delle palestre, delle piscine e degli impianti sportivi privati”.
Si confronti la sentenza del 19 febbraio 2021 del Tribunale di Roma.
In altre parole, in assenza di strumenti legislativi che soddisfino realmente gli opposti interessi, le parti hanno trovato le intese necessarie a proseguire, seppur con grande fatica, i rapporti contrattuali, compromessi dal dilagare della pandemia.
In questo senso, essenziali sono gli orientamenti espressi dalla Relazione n. 56 dell’8 luglio 2020 del Massimario della Corte di Cassazione, nella quale, pur non nascondendo la Suprema Corte che “il legislatore non si è inventato nuovi rimedi alle tensioni proiettate dal lockdown sulla solvibilità dei debitori e sull’esecuzione dei loro rapporti contrattuali”, ha tuttavia suggerito alle parti contrattuali un approccio orientato a correttezza e buona fede, sconsigliando una discontinuità di rapporti, da intendersi come rimedi risolutori di legge, che, giocoforza, avrebbe messo in ginocchio un intero sistema produttivo ed economico.
Non banale, in tal senso, l’affermazione della Corte secondo cui “l’ordinamento privilegi la conservazione del contratto mediante revisione, rispetto alla caducazione del rapporto negoziale” (pag. 20, Relazione n. 56 del Massimario della Cassazione).
Ebbene, nel solco di tale spinta di conservazione e rivisitazione degli accordi, “ogni qualvolta una sopravvenienza rovesci il terreno fattuale e l’assetto giuridico-economico su cui si è eretta la pattuizione negoziale, la parte danneggiata […] deve poter avere la possibilità di rinegoziare il contenuto delle prestazioni”.
È bene chiarire che le parti sono invitate a ridiscutere i termini dell’accordo disallineato dalla pandemia, ma non hanno anche l’obbligo di concluderne uno nuovo, nel senso che è importante che diano luogo a nuove trattative improntate a buona fede, ma che non debbano necessariamente sfociare in una nuova intesa.

Principali risposte della giurisprudenza

Se ciò è vero, ecco dunque che il contraltare della sopracitata percentuale di accordi favorevoli si riflette in un 4-5% di situazioni che sono degenerate al punto tale da richiedere l’intervento del giudice di merito. La giurisprudenza, in tal senso, ha fornito alla prassi operativa risposte elastiche e variegate: non pochi tribunali nazionali hanno sposato le indicazioni della Suprema Corte circa l’opportunità di procedere a una rinegoziazione degli accordi alterati dagli effetti della pandemia.
Altri, invece, hanno preferito l’interpretazione letterale e più restrittiva secondo cui, ove avesse voluto, il legislatore avrebbe esplicitato a chiare lettere l’intenzione di aiutare gli operatori di settori commerciali in particolare difficoltà.
Nel primo senso, tra le tante, si segnalano l’ordinanza del Tribunale di Milano, 21 ottobre 2020, nella quale si stabilisce che “a causa dell’emergenza sanitaria in corso, è da ritenersi necessaria, alla luce del principio di buona fede e correttezza, nonché dei doveri di solidarietà costituzionalizzati (art. 2 della Costituzione) una rinegoziazione del canone di locazione al fine di riequilibrare il sinallagma”.
Dello stesso tenore l’ordinanza 29683 del 27 agosto 2020, con la quale il Tribunale di Roma è giunto a sostenere che la clausola generale di buona fede e correttezza avrebbe altresì “la funzione di rendere flessibile l’ordinamento, consentendo la tutela di fattispecie non contemplate dal legislatore”.
Tale flessibilità si tradurrebbe nella possibilità di un materiale intervento del giudice in funzione suppletiva e integrativa: se le parti non si accordano per condividere il rischio sopravvenuto, le condizioni che riportano il contratto “entro i limiti dell’alea normale” sono stabilite dal giudice stesso.
Nel caso di specie, tale intervento ha disposto la sospensione della garanzia fideiussoria fino all’importo di 30.000 euro e la riduzione del canone dovuto del 40% per i mesi di aprile, maggio e giugno 2020, nonché del 20% da luglio 2020 a marzo 2021.
Nella stessa direzione il Tribunale di Torino, con ordinanza 25 giugno 2021, che ha concesso al conduttore una riduzione del canone per il periodo di lockdown pari al 70% di quanto contrattualmente stabilito, tenuto conto della “considerevole e rilevante incidenza dei provvedimenti restrittivi sulla vocazione produttiva del bene locato”.
In base a un’ordinanza cautelare del Tribunale di Santa Maria di Capua Vetere, non sarebbero dovuti, durante il lockdown e la zona rossa, i canoni e le spese di gestione di un ristorante all’interno del centro commerciale Campania, mentre andrebbero scontati del 30% i canoni e del 60% le spese di gestione nei periodi interessati da restrizioni parziali, come la zona arancione e gialla, durante i quali il centro commerciale ha tenuto orari ridotti.

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