Imparare dagli influencer per dialogare con consumatori multi sfaccettati

La scelta del giusto influencer per la propria campagna di marketing si basa solo sui numeri e sulla possibilità di conversione? No, è una questione di valori da condividere. Ma serve un cambio di paradigma. I dati dell’indagine dell’Osservatorio InSidE (influencer, stories, identities and evolution

Quello dei social non è un mondo che permette semplificazioni come la percezione che un alto numero di follower corrisponda a un miglior tasso di conversione e alla convinzione che ci siano social più adatti ai giovani di altri. Luoghi comuni da superare, come dimostrano i dati dell’indagine dell’Osservatorio InSidE (influencer, stories, identities and evolutions) che definisce un nuovo paradigma nella relazione tra brand e influencer. L’Osservatorio, voluto da Pulse Advertising, in collaborazione con la Facoltà di Scienze Politiche e Sociologiche dell’Università di Pavia e con Eumetra, fornisce una spiegazione scientifica alle logiche di influencer marketing, indagando la complessità di un mondo in trasformazione dove influencer, follower e general public sono in costante comunicazione e relazione.

Da top down a bottom up

La prima release dell’indagine InSidE, condotta su un campione di influencer italiani di diversi settori e anzianità, analizza la complessità di un contesto in costante trasformazione, determinando una necessità: va abbandonata la dinamica top down per concentrarsi su quella bottom up, più amata dagli utenti, e lavorare su dinamiche orizzontali con messaggi che vengono costruiti attraverso condivisione e dialogo tra brand e influencer. Il tutto, partendo da un presupposto: people trust people. I social nascono per le persone, non per le aziende e, dati Instagram alla mano, il 68% delle persone fruisce di contenuti dei creator, non dei brand. Sono loro a conoscere, definire, dialogare con il pubblico. Loro a conoscere le corrette dinamiche di relazione di un mondo che si prepara al metaverso dove, secondo Paola Nannelli, executive director di Pulse Advertising, “è in corso una rivoluzione sociale, prima ancora di digitale che vedrà, nella creazione di nuovi equilibri, i creator come super user, come coloro che sanno usare meglio questo ecosistema sociale e che, con le domande giuste, ci restituiscono una rappresentazione della società con insight rilevanti”. L’accelerazione dettata dalla pandemia è stata un primo esempio di come gli influencer abbiano contribuito alla definizione di nuove forme di relazione e fiducia con gli utenti e del valore dato ai contenuti, e la loro esperienza diventa utile nella definizione di un futuro prossimo.

Una nuova categorizzazione degli influencer

La prima grande rivoluzione identificata dall’Osservatorio è quella della classificazione: non più basata sull’ampiezza della fan base, ma sull’anzianità digitale che determina differenze sostanziali nel tipo di approccio comunicativo. Due sono le categorie da considerare: early adopters, gli influencer attivi sul mercato da diversi anni, e quelli che si sono approcciati solo recentemente alla professione, i last comers. “La distinzione tra early adopters e last comers evidenzia una diversità anche rispetto all’eterogeneità di strumenti e contenuti -specifica Flavio Ceravolo, direttore del Master in Digital Communication dell’Università di Pavia-. Mentre i last comers sono più votati all’eterogeneità perché rivolti a un mondo che fa della propria complessità in termini di posizionamento dei contenuti e su diversi canali il loro dna professionale, gli early adopters si configurano come legati a una traiettoria e a un social di riferimento che conoscono bene e sanno dominare e prima di entrare in contatto con nuova esperienza fanno una serie di valutazioni rispetto al posizionamento del nuovo social con la loro storia e si percepiscono come intellettualmente proattivi nei confronti dell’ecosistema”. Vi sono, inoltre, due gruppi simbolo: quello dei reviewer, dove il core business è legato all’anticipazione su nuove tecnologie, prodotti e tendenze, e gli opinion leader intellettuali. Ad accomunare le categorie è la medesima percezione, il definirsi degli influencer come “portatori di storie”, alcuni con un taglio più divulgativo e altri più legato all’intrattenimento. Alla base vi è una relazione complessa che mette insieme passione, tempo, contenuti e vita privata.

La condivisione dei valori

Scegliere un influencer per rappresentare il proprio brand è, oggi più che mai, una questione di mindset. “I paradigmi del mercato stanno cambiando -prosegue Nannelli- e va cambiato anche il nostro vocabolario: non possiamo più parlare di target da colpire, ma di consumatori multi sfaccettati, che abitano social diversi e con i quali bisogna dialogare. Questo significa che non si possono trattare i social come vetrine e usare gli influencer per fare placement. I creator dimostrano come si sia ridotta la distanza tra prodotto e consumatori: non bisogna generare desiderabilità ma essere ascoltatori inclusivi: più che del prodotto, i brand devono raccontarsi attraverso i valori per parlare a consumatori, come quelli della GenZ, ondivaghi ma attenti ai valori. Bisogna costruire un modello nuovo di cittadinanza digitale e avviare l’educazione al digitale in modo diverso, dandoci nuove regole per stare sui social imparando dai creator”.
Un’azienda deve dunque chiedersi: di che tipo di influencer ho bisogno? Qual è la sua storia, quali i suoi contenuti e quale il tipo di relazione con la fan base? È meglio puntare su contenuti divulgativi o che coinvolgono la vita privata? Lo studio, per esempio, evidenzia una forte relazione tra engagement e vita privata: è lì che i brand possono trovare attenzione, risultando più coinvolgenti, ma se i follower crescono, questa differenza si appiattisce. Ci sono situazioni in cui i contenuti comunicativi devono entrare in sintonia con la sfera privata per massimizzare efficacia. Per questo è fondamentale condividere i brief con i creators e definire insieme la strategia. Lato influencer, è interessante notare come la decisione di collaborare con un brand non sia di natura economica ma dettata dall’essere già consumatori, seguita dall’interesse da parte dei follower e dalla reputazione del prodotto, mentre il cachet è all’ultimo posto. Le interviste realizzate dall’Osservatorio vedono infatti gli influencer molto attenti a non “inquinare” la relazione con i follower prestando il volto a brand lontani dal proprio sistema valoriale. “La differenza tra comunicator tradizionale e creator è nella community -conclude Ceravolo- e nella fiducia che si crea tra le parti. I brand devono imparare a dialogare con i creator per utilizzarli non come ripetitori di messaggio, ma in linea con il messaggio che vogliono portare. Qui il ruolo delle agenzie è cruciale per andare verso una comune definizione del contenuto, partendo dal brief”.

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