Intervista esclusiva a Angelo Gaja

Copertina – MARK UP incontra il produttore vitivinicolo che ragiona su arte del vino, Ogm e formazione del pricing. (Da MARK UP 196)

Angelo Gaja è un'etichetta vivente. Tutti lo apprezzano e tutti lo ascoltano ma, anche, tutti lo temono. Non guarda la tv da quindici anni e legge
molto i giornali, italiani e stranieri, ai quali dedica un tempo
importante della sua giornata.
Ogni tanto compila una velina
(la velina Gaja) e la manda a un
gruppo selezionato di giornalisti
e opinion leader e iniziano le discussioni. Langarolo di animo e
di lingua, con una visione internazionale, è in grado con poche
battute di condizionare qualsiasi dibattito. MARK UP lo ha incontrato prima del Vinitaly, salone che frequenta mettendosi nelle sale dei dibattiti sempre in fondo, camuffato da uditore qualsiasi. Prende appunti
e, alè, è pronta un'altra velina.
Non ama troppo il contradditorio ed è difficile fermarlo mentre
parla: “Stavo terminando un ragionamento...”.

Angelo, a che punto è arrivato il vino e la produzione dal
tuo osservatorio?


È sempre più determinante
una variabile che dipende solo dalla natura: le variazioni climatiche, ormai diventate imperscrutabili. Quando sono particolarmente favorevoli, come nel 2004, 5, 6, 7 ed 8,
con estati asciutte, chi non ha
lavorato particolarmente bene nel vigneto non ha registrato particolari problemi, se non
le grandinate, il caldo estivo ha
portato a maturazione le uve,
seppur abbondanti. Negli ultimi due anni invece, a causa
delle piogge improvvise e frequenti, hanno ottenuto buoni
risultati quelli che hanno lavorato bene nel vigneto.

Quanti hanno lavorato bene?

Mah, nel 2010 diciamo il 20-30% dei produttori. Hanno superato le difficoltà imposte dalle piogge insistenti che hanno
reso i trattamenti superflui o
difficili da fare. Se l'uva è stata diradata per tempo si sono
distinti, chi non l'ha fatto ha
avuto problemi.

Problemi di che tipo?

Di minore qualità del prodotto. Rilevo che nel 2010 c'è stata una grande diseguaglianza di maturazione delle uve.
La vendemmia è stata ritardata, in modo corretto ed è tornato alla ribalta un elemento della tradizione, cioè quello delle esposizioni, che ha premiato solo i vigneti eccellenti, non
come nel 2003 quando il caldo
abnorme ha fatto maturare le
uve anche nei fondo valle, dove ci sono vigneti di mera speculazione.

Tutto bene, allora, no?

Ma sì: è stata una vendemmia
normale. L'alternanza climatica, lo ripeto, premierà chi ha
saputo lavorare per tempo e bene la vigna.

Perché insisti sul lavorare
bene la vigna?

Perché è e sarà la vera discriminante. Bisogna investire nella
manodopera e nel tempo passato fra i filari, vigilando e intervenendo. Bisogna tornare
al nostro vero mestiere, quello
dell'agricoltore che vuole produrre uva di qualità.

Angelo, io però ti ho disturbato perché in una ultima
tua velina hai calcato la mano sul made in Italy. È un discorso di moda?
È una barriera all'entrata? È una preoccupazione? Cosa vuol dire esattamente?

Sono i politici che lo stanno rilanciando, io lo sto solo prendendo in considerazione. Concordo che sia, con la moda e
l'alimentare il marchio più forte al mondo, oggi. Tu hai mai
sentito parlare del made in England o del made in Usa? Abbiamo in mano un patrimonio
da sfruttare con molta cautela
e con un disegno di lungo periodo.

Beh, per onestà dobbiamo dire che il made in France, resiste bene...
Certo, ma il made in Italy ha
un numero maggiore di settori dove emergiamo con eccellenze che tutto il mondo ci invidia. Abbigliamento ma non
solo, l'arredamento. L'artigianato. La cucina con i prodotti
alimentari.

E il vino?

Noi ci sentiamo partecipi del
successo del made in Italy anche se non ci siamo mai fregiati di questa etichetta, scusa il gioco di parole. Anche i
settori che hanno delocalizzato la produzione si sono avvalsi dell'etichetta del made in
Italy per ribadire un concetto di
prodotto e di cura del prodotto,
di design e di elementi immateriali. E il mercato gli ha dato ragione seppur in un regime
di concorrenza ormai globale,
basato sulla riduzione dei costi
mantenendo inalterata la qualità.

Certo. Torniamo al progetto di legge sul made in Italy.
Può aver successo o no?

Sì, se terrà conto della nostra realtà e della complessità nella quale siamo immersi. Che è diversa da quella, per esempio,
dell'abbigliamento.

E se poi subentrerà il made
in Europe?


Mah, è tutto vedere e da studiare per capire chi sarà tutelato e chi no, mi auguro ci sia
l'imparzialità necessaria che
premi gli artigiani e i piccoli
produttori. In parte però, credo, complicherà la vita al made in Italy. Ma alla fine, me lo
auguro, ci sarà tanto la tutela
dell'artigianato quanto la tutela dell'industria, in un gioco di squadra per l'affermazione della qualità e del suo sistema di filiera. Forse, però, andrebbero fatti due marchi di
tutela certificati: uno per documentare un prodotto interamente fatto in Italia, dalla materia prima in poi, come il vino, e un altro che certifichi la
capacità di manifattura del sistema Italia, quando siamo in
presenza di materie prime non
italiane, come nel caso dell'abbigliamento. Questo proteggerà il lavoro e il know how di
trasformazione di molte nostre
imprese.

Allora cosa manca al vino?

La narrazione. Bisogna che i
produttori, grandi e piccoli, si
concentrino sull'informazione, sulla narrazione del loro sistema di prodotto e di produzione, mettendo in risalto la
diversità che connota il vino.
Hai presente la narrazione di
Dom Perignon? Basta copiare.
La storia, i simboli, il fascino,
il territorio: tutto va legato e
raccontato. Ed è quello che serve al nostro artigianato: insieme per raccontare il prodotto.

Angelo e gli Ogm cosa centrano in tutto questo?

Alt, fermati, bisogna spiegare bene. Ci sono due fasi. C'è la
crisi dei consumi ma la qualità
si è innalzata. In questo scenario ecco gli Ogm: è necessario
fare sperimentazioni, dopo si
potrà decidere. Ma l'Italia non
si presta, per il momento.

Non ti facevo partigiano degli Ogm...

Non sono un partigiano, dico
che si dovrebbe sperimentare
questo tipo di colture.

Bene. Allora accetta questa
provocazione. La Monsanto ha il nulla osta per sperimentare le barbatelle Ogm.
Sceglie Barbaresco come sito
per la sperimentazione. Angelo Gaja ha i capelli diritti?

Tutti vogliono sperimentare tutto, ma a casa degli altri.
Forse, però, la Monsanto dovrebbe farlo in altre zone meno
vocate. Se venissero a Barbaresco sarebbe una provocazione,
sarebbe un terremoto. Ma rimango non contrario alla sperimentazione...

Dando un calcio alla tipicità...

Come fai a dirlo con questa certezza che ti contraddistingue?
Dipenderà dai produttori che
scelta fare. Non credo che i pollini di Ogm possano contaminare altre zone tradizionali. La viticoltura va per innesti, non per sementi. Non credo che le multinazionali siano così sciocche da sperimentare l'Ogm nelle vigne di Petrus o
di Barbaresco, ci sono altre zone in cui è possibile farlo. Ma
ritengo sbagliato non accettare la sperimentazione a priori.

Perché non lo provi tu? Presti il tuo nome all'Università di Pavia e iniziate a sperimentare...
Perché legare l'Ogm a un marchio? È una soluzione che potrebbe avverarsi dopo quindici
anni di prove... Non sono contrario a priori, lo ripeto. Potrei
prendere anche in considerazione l'adozione di una chiusura con tappo a vite anziché
di sughero, poi bisogna vedere se il vino tiene la stagionatura di vent'anni. L'ho sperimentato nell'azienda che abbiamo in Toscana, ma i dinieghi più forti sono arrivati dagli
importatori. Oggi al vino servono meno fitofarmaci e, questo sì, migliorerebbe la viticoltura e la salubrità del paesaggio agricolo.

Torniamo alla tua velina.
Perché ti ha colpito il concetto di “buono quanto basta”?

L'abbassamento del potere di
acquisto del consumatore ha
convinto chi beve vino ad accontentarsi di un po' di eccellenza in meno. È comune a molte categorie merceologiche. E questa diminuzione è un trend di lungo periodo. Vuoi chiamarla low cost di
qualità?

Lo scorso anno circolava la
voce che i grandi trader potessero comprare il barolo a
2-3,50 euro all'ingrosso. È vero?

Purtroppo sì e ha riguardato i
produttori che avevano la cantina piena e hanno dovuto fare
spazio alla nuova annata.

Se il barolo costa 3 euro c'è
davvero qualcosa che non va
nel mondo del vino...

È un prezzo costruito in coincidenza della crisi finanziaria
del 2008. Da qui la diminuzione del reddito e dei consumi.
Ecco che è spuntato il “buono
quanto basta”, la qualità a un
prezzo accettabile. Cioè il consumatore si è accorto che poteva bere bene spendendo meno
che nel passato. E anche questo sarà un trend di medio periodo, arduo da limitare. Ma il
barolo a 3 euro te lo puoi scordare in futuro.

Il prezzo come si protegge?
Il prezzo è già sceso ma non
scenderà ulteriormente. Si protegge lavorando per la qualità e
non per la quantità, investendo come ti ho già detto nel vigneto. Il resto lo farà il mercato.

E i contributi statali o comunitari, quali essi siano, che
ruolo giocheranno?

Non servivano, non servono e
non serviranno, perché hanno
favorito solo i produttori mediocri: quelli che non sanno
dove sia di casa la parola mercato, gli stessi che sono pronti a
vendere il barolo a 3 euro.

Qualche nome?

Eh, bravo...

Cos'è la vendemmia verde?
Comunemente si intende per
vendemmia verde l'intervento
virtuoso di diradamento delle uve, volto a eliminarne una
parte soltanto per fare sì che
la qualità delle rimanenti ne
tragga vantaggio.
Ocm ha impropriamente chiamato vendemmia verde l'operazione di eliminazione di tutta l'uva verde del vigneto, a
scongiurare o contenere gli effetti della sovrapproduzione.
L'intervento, autorizzato per la
prima volta nel 2010, viene premiato con l'erogazione al viti
coltore di un contributo comunitario (di circa 0,30 euro per
kg di uva distrutta).

Cosa vuol dire?

Che dobbiamo moltiplicare gli
sforzi per esportare se vogliamo mantenere lo stesso livello di produzione. Con un nuovo
progetto che punti per esempio
alle produzioni autoctone per il
consumo interno, e, soprattutto, con un innalzamento dei
prezzi nell'export.

Angelo, quando entri nei supermercati di Carrefour, Iper
o di Despar e vedi vino con il
prodotto a marchio di fantasia dell'insegna cosa pensi?

Capisco perché lo fanno ma mi
dà fastidio. Se riescono a mantenere i margini della filiera
e a garantire la sopravvivenza dei viticoltori ha ancora un
senso, se si appoggiano a una
marca sicura che confeziona
per loro ha certamente un senso, ma per riuscire a vendere a
un prezzo basso a tutti i costi,
che senso ha? Mi sembra un atteggiamento arrogante.

Qual è il prezzo giusto per un
Barolo o un Barbaresco?

Se riferito al periodo di piena
crisi di pre-vendemmia 2010, il
prezzo minimo su scaffale poteva essere anche di 10 euro a
bottiglia.

Di qualità?

Di qualità. Il consumatore salta dalla gioia con simili prezzi,
ma è una situazione che non
durerà a lungo, perché il prezzo del Barbaresco all'ingrosso è
destinato a ricollocarsi a livelli
più elevati.

Oscar Farinetti con Fontanafredda ha lanciato la bottiglia di Barolo da 1 litro. Manovra corretta?

È una strategia di marketing
su una misura ben conosciuta
nel passato. Giudicherà il consumatore se è giusta o meno.
Chiedilo a lui.

Chi è Angelo Gaja
71 anni, considerato il re del
Barbaresco. Vignaiolo, produttore, intellettuale. si è
guadagnato sul campo qualsiasi (quasi) etichetta vorrete appiccicargli. Ha declassato i suoi cru di Barbaresco
(Costa Russi, Sorì Tildin, Sorì San Lorenzo) e l'ex Nebbiolo Sperss a Langhe Nebbiolo
ed è rimasto nella Docg solo con il Barbaresco base. La
denominazione non è mai
stata così vitale da quando
Angelo Gaja ha deciso queste mosse.

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