Intervista esclusiva a Luigi Bordoni, presidente di Centromarca

Intervista di copertina – Il punto di riferimento del mercato e del consumatore è la marca. Luigi Bordoni spiega perché il prezzo e le promozioni non possono essere le sole componenti su cui l’offerta può lavorare. (Da MARK UP 178)

Luigi Bordoni, presidente di Centromarca, è reduce da una serie di incontri, esterni e interni al sistema della marca. È di ottimo umore, ma anche preoccupato.

Luigi, cominciamo dalla salute di cui godono le grandi marche. I vostri comunicati sono positivi. Qualche opinionista azzarda giudizi negativi. È davvero una buona salute che terrà, soprattutto, nel medio-lungo periodo?

In questi mesi le rilevazioni che periodicamente facciamo con Eurisko ci danno la possibilità di constatare la qualità della tenuta, la forza genuina della marca. È la prova della verità. La marca è stata data, anche in un passato recente, in forte difficoltà, sfidata a ripensarsi, a cambiare abito o attitudine.
Ma, nonostante le difficoltà che l'economia e il mondo dei consumi stanno attraversando, i dati mostrano in realtà un grande attaccamento alle marche e ai loro valori distintivi da parte del consumatore.

È un fatto di grandissima rilevanza: in un momento non facile per l'economia la marca continua a costituire un punto di riferimento.

Addirittura l'apprezzamento del consumatore aumenta. In parallelo, numerosi studi indipendenti registrano negli italiani un miglioramento del clima di fiducia delle famiglie e della fiducia nelle proprie capacità personali di affrontare la congiuntura complessa. C'è una chiara volontà di darsi da fare per mantenere e se possibile migliorare lo standard di vita raggiunto, nonostante le perplessità che emergono sul fronte della capacità complessiva del nostro sistema paese di far fronte alla crisi. Siamo ancora burocratici e lenti. Per la verità si notano, dopo tanti anni, dei segnali positivi, una fattiva volontà di cambiamento. La direzione è giusta, ma c'è ancora molto da fare per adeguarci agli standard europei.

Quindi andamento dei mercati e grado di fiducia del consumatore coincidono.
I risultati delle vendite di marzo (gli ultimi disponibili al momento in cui scriviamo questa intervista, ndr) sono positivi e confermano la corrispondenza tra mood qualitativo e comportamento d'acquisto.

La quota di mercato delle grandi marche però scende.

Scende fisiologicamente per l'ingresso nel mercato di nuove alternative di offerta, tra le quali le private label.

Dal nostro punto di vista questo è un normale assestamento del mercato, in cui, com'è noto, la quota della marca è elevatissima rispetto al resto d'Europa e ai paesi industrializzati.

A che punto siamo arrivati?

L'erosione che osserviamo è attorno allo 0,8% l'anno. È molto significativo il fatto che non ci sia stata alcuna accelerazione legata alla crisi, anche negli ultimi mesi.

E i prezzi?

Sono scesi, in modo consistente, anche per effetto della pressione promozionale, a partire dal dicembre 2008. E continuano tuttora a rallentare…

Questo vi preoccupa?

Non è questo il fenomeno che ci preoccupa. Quello su cui continuiamo da tempo a richiamare l'attenzione è la focalizzazione esasperata e continua sulla competizione di puro prezzo, che finisce per avere ripercussioni a monte sulle imprese, sull'occupazione, sulle risorse destinate a innovazione, comunicazione e sviluppo. E, là dove non ci sono i vincoli del sistema marca, anche sulla qualità e la sicurezza dei prodotti.

Potremmo dire che, con la ricerca del prezzo sempre più basso, ammesso che guadagni il consumatore, sicuramente perde il cittadino. Negli Stati Uniti c'è un intenso dibattito su questo tema. Robert Reich, già ministro del Tesoro dell'amministrazione guidata da Bill Clinton, in un suo recente libro denuncia che la spirale del prezzo rischia addirittura di mettere in discussione le conquiste sociali e le libertà democratiche conquistate nel corso dell'ultimo secolo. Reich, per esempio, fa riferimento a Wal-Mart e parla senza mezzi termini di “supercapitalismo” quando denuncia i comportamenti antisindacali di cui ha parlato ampiamente la stampa internazionale.

Torniamo in Italia. Tutte le ricerche descrivono una forte domanda di convenienza da parte del consumatore.
Le private label ne intercettano solo un 50%. Il restante 50 è diviso fra discount, mercati ambulanti e altri canali. Perché la marca non riesce a intercettare questa domanda sempre più radicale?

Non sono d'accordo. La marca propone sempre un corretto equilibrio tra il valore della prestazione e il prezzo. E sta mostrando di saper agire sulle sue efficienze interne per garantire al consumatore la convenienza di cui ha bisogno. Certo deve farlo salvaguardando adeguati livelli di qualità, affidabilità, servizio.

E ovviamente anche gli investimenti in innovazione e comunicazione, fondamentali per mantenere ogni brand dinamico e in costante sintonia con l'evoluzione delle esigenze del consumatore.

Questo ci introduce al tema del valore e della sua costruzione, sia per la marca sia per le private label. Il momento che la nostra business community vive è più complesso di un tempo. I costi d'introduzione di un nuovo prodotto sono diventati vieppiù alti. Il paradigma e il significato di valore sono cambiati secondo te?

Il pericolo che noi stiamo osservando è la perdita della gamma valoriale nel suo insieme. È il problema che abbiamo affrontato poco fa. Ribadisco il concetto: il prezzo non può essere la sola componente su cui l'offerta deve lavorare. Occorre chiedersi seriamente se il largo consumo non stia perdendo la competizione con altri mercati…

Quali?

Quote di reddito crescenti sono destinate a spese per il tempo libero, alla socializzazione e al benessere: dalla telefonia alle vacanze, dalla palestra all'automobile. La spesa di base rischia di diventare una routine noiosa, non gratificante…
E se le imprese distributive puntano ossessivamente sulla competizione di prezzo, anziché esaltare la piacevolezza e l'attrattivita della shopping experience, l'intero sistema scivolerà verso la commoditizzazione.
C'è una fascia di popolazione che ha sicuramente problemi di reddito, ma non si può appiattire tutta l'offerta e tutta la competizione esclusivamente sull'esigenza di questa fascia, perdendo così grandi opportunità di business e l'appeal complessivo dell'offerta.

L'alternativa qual è?

Dobbiamo tutti lavorare, industria e distribuzione moderna, per rendere la nostra offerta sempre più attraente.
Al consumatore dobbiamo offrire servizio, qualità, varietà, giusta convenienza, storie, emozione… La marca sta facendo la sua parte, anche in questa fase non brillante dell'economia; ma anche i retailer hanno un ruolo fondamentale in questo processo: se abdicano a questo ruolo rischiano di banalizzare il mercato. È questo che vogliamo?

Questo progressivo impoverimento è presente in tutte le catene?

Molte catene hanno sviluppato strategie di posizionamento, lavorato sui format, sui layout, sulle forme espositive, creato forme evolute di collaborazione con l'industria.
Poi, però, quotidianamente, finiscono per focalizzarsi sul prezzo e per ridimensionare i principi più strategici della loro attività.

Passiamo ai rapporti industria-distribuzione. Al centro, a giudizio di MARK UP, oggi ci sono fra tanti item i tempi di pagamento e i contributi fuori fattura che, molto lentamente, stanno drenando all'interno della fattura per ricomporre la fornitura in modo diverso. Quali tendenze vedi al proposito?

I tempi di pagamento sono rispettati da circa un terzo degli operatori.
Gli altri li hanno peggiorati, in misura minore o maggiore.
Per quanto riguarda il fuori fattura, abbiamo richieste di aumento che ormai hanno raggiunto livelli insostenibili per le imprese. Si tratta di una massa di contributi che non trova né riscontro nelle controprestazioni né coerenza con il prezzo di cessione.

Per quanto riguarda i pagamenti, si crea un irregolare vantaggio competitivo proprio sui tempi di pagamento, visto che c'è una sperequazione fra chi è nei tempi e chi no.

Infatti i distributori che rispettano i tempi concordati denunciano il problema non meno dei nostri associati.

È un fatto meramente congiunturale o può trasformarsi in un elemento strutturale?

Su questo specifico tema l'Italia è da molti anni il fanalino di coda con la peggior posizione in Europa.
Però c'è un peggioramento congiunturale che riscontriamo dallo scorso ottobre. La situazione è particolarmente grave per i fornitori, che fanno i conti con una situazione di difficile accesso al credito.

Come se ne esce?

Semplicemente rispettando gli impegni presi. E questo deve avvenire subito.

Viste le forti criticità, forse, sarebbe il caso di mettere al lavoro i meccanismi interni e le diplomazie che governano i rapporti industria-distribuzione. Non sarebbe meglio un'auto-regolamentazione a un provvedimento di legge?
Sono d'accordo con te, anche perché la legge e i regolamenti già ci sono.
A cominciare proprio da quelli che impongono il rispetto dei tempi di pagamento concordati. Il problema è che non vengono applicati.

È mai capitato che un'industria citasse un medio-grande distributore?

Non ci risulta che esista al mondo un fornitore che abbia portato in giudizio un importante cliente.

Ritorniamo ai contributi fuori fattura. Perché non si verifica il passaggio in fattura?

La maggioranza dei nostri associati è favorevole al passaggio di una porzione significativa di questi contributi in fattura.
Questo non accade perché una parte del sistema distributivo teme che il passaggio in fattura abbia ripercussioni sui prezzi di vendita e quindi sui margini.

Di quanto è aumentata la contribuzione negli ultimi anni?

Non posso rispondere perché non possiamo chiederlo ai nostri associati.

Ma è aumentata o no?

Certo che è aumentata, come tutti gli anni.

Luigi, questo aumento sta intaccando in profondità la marginalità e il conto economico dell'industria o fa parte delle regole del gioco, del teatrino dei rapporti e delle rispettive competenze?

Dipende da molte variabili, soprattutto dal potere contrattuale di ciascuna impresa.
Se un fornitore è importante, ha anche la capacità di controllare meglio questi meccanismi. I piccoli e i medi hanno più problemi. Per tutti, comunque, il trade spending è ormai la voce di costo di gran lunga più importante.

A quanto ammonta?

Per diversi anni abbiamo sostenuto che fosse il doppio degli investimenti pubblicitari dell'industria di marca. Oggi siamo arrivati al triplo e oltre.

Il triplo?

Ci sono addirittura dei calcoli… No, forse è meglio lasciar perdere

No, no, anzi. Dimmi pure.

Stime elaborate in sede pubblica parlano di 10 miliardi di euro l'anno. Il problema, fra l'altro, è che l'ammontare incrementa sistematicamente ogni anno. Tieni presente, poi, che quando i distributori chiedono un aumento di due punti le nostre imprese sono costrette ad aumentare i listini di un valore più che corrispondente.

Ma i distributori dicono di non accettare gli aumenti proposti.

Certo che lo dicono. Ma alcuni punti d'incremento richiesti senza contropartite e quindi privi di ritorno economico, significano un costo per l'industria che deve essere necessariamente compensato.
Una volta recuperate tutte le possibili efficienze, l'unica leva su cui si può agire per farlo è l'aumento del listino.
Che alla fine può risultare anche superiore alla richiesta aggiuntiva di contribuzione per via dell'effetto derivante dalla scontistica, in fattura e fuori fattura.

È il cane che si morde la coda?

Appunto.

Nuovamente: che fare?

In questi anni abbiamo lavorato con il trade su un modello di relazione industria-distribuzione che ha puntato a valorizzare la prestazione, a creare partnership, a condividere, a mettere al centro il consumatore, il riferimento fondamentale per entrambi, industria e distribuzione. Immagino che tu abbia sentito parlare di questi modelli.

Abbiamo implementato dei piloti di grande spessore al riguardo; abbiamo varato un sistema d'innovazione più semplice e più rapido. A un certo punto, però, ci siamo fermati e non siamo più riusciti ad andare avanti.

Come mai?

Perché si trattava di passare dalla sperimentazione a un sistema di relazioni strutturale e sistemico. Gli operatori della distribuzione hanno il timore, credo, di lasciare un sistema conosciuto per adottarne uno meno noto e come tale avvertito come rischioso. In questo modo però si rischia di rinunciare a una dimensione di eccellenza e a sviluppi positivi per i produttori, i distributori e il consumatore.

E quindi? Dovete risedervi a un tavolo o aspettare un intervento legislativo?
Per adottare un modello non serve il legislatore, ma la convinzione che è produttivo di vantaggi.
Altro problema è quello della correttezza dei rapporti.
La materia ha ormai assunto rilevanza politica - come da molto tempo in tutta Europa - perché non riguarda solo il mondo delle imprese, ma il sistema complessivo. Correttezza e trasparenza sono fondamentali.
O saremo capaci di arrivarci da soli, autoregolamentando i nostri comportamenti, o sarà inevitabile l'intervento di un regolatore esterno.

L'ultima domanda, Luigi. Centromarca è più preoccupata dei cambiamenti nei comportamenti di acquisto e di consumo o della piega che stanno prendendo i rapporti industria-distribuzione?

Il consumatore sta rispondendo in modo sorprendentemente positivo alla crisi e confermando il suo apprezzamento per la marca. Siamo più preoccupati per il fatto che diversi partner della distribuzione resistono al passaggio a un sistema di rapporti più costruttivo e aperto all'eccellenza.
Vi sono però segnali che questa nostra visione è condivisa da significativi operatori della distribuzione moderna. Sono segnali tutt'altro che deboli, che riteniamo destinati ad animare la competizione nel prossimo futuro. I modelli ci sono.
Per esempio basta vedere quanto accade in Gran Bretagna.
Perché non li copiamo?

Chi è Luigi Bordoni

Dopo un trentennio alla direzione generale di Centromarca, Luigi Bordoni è stato eletto lo scorso anno alla presidenza dell'associazione. Raramente si verifica un passaggio di questo tipo, verso una carica solitamente ricoperta da un imprenditore. Tra i suoi predecessori, figurano nomi come Pietro Barilla, Giordano Zucchi, Luigi Lazzaroni, Vittorio Merloni, Manfredo Manfredi ed Ernesto Illy.
Bordoni vanta precedenti esperienze nel settore commerciale Fiat e nel marketing Unilever.

Sotto la sua guida Centromarca è passato da 40 a 200 industrie associate. Ha curato la creazione di importanti associazioni attive nel settore dei beni di consumo: Altagamma, Ecr, Indicam (Istituto per la lotta alla contraffazione), Indicod, Indicod-Ecr.

Le previsioni % degli associati per il 2009

Molto inferiore Inferiore Uguale Superiore
Quota vendite generata
da innovazioni

5,8 32,7 30,8 30,8
Investimenti industriali complessivi
9,8 37,3 31,4 21,6
Investimenti in comunicazione e pubblicità 11,5 42,3 28,8 17,3
Ebit 1,9 38,5 34,6 25,0
Vendite a valore 9,6 30,8 28,8 30,8

Fonte: indagine interna Centromarca

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