Investitori core: l’Italia deve tornare a rassicurarli

Sul mercato italiano ci sono asset in vendita per 4 miliardi di euro come il centro commerciale Roma Est che da solo vale 450 mln (da Mark Up n. 279)

Fra le non molte società internazionali specializzate nella consulenza e nel supporto alle grandi transazioni immobiliari, Cbre è una delle più attive, soprattutto in Italia, in questi mesi. Nel 2018 ha seguito importanti passaggi di proprietà nel settore centri commerciali e strutture affini, come la vendita di Centro Sicilia a Gwm (prima sua acquisizione nel sud Italia) a 140 milioni di euro, la vendita (per 105 milioni) di 8Gallery a Torino da parte di Axa/Pradera, e l’acquisto di un pacchetto di tre centri commerciali storici del nord Italia (Metropoli e Settimo a Milano e Le Rondinelle a Brescia).

Nel 2018 Cbre ha seguito e curato il passaggio a Cattolica Assicurazioni di Campo dei Fiori a Varese, primo investimento (per 55 milioni di euro) in centri commerciali di Cattolica.

Uno dei deal più recenti del 2019 seguito da Cbre è quello di Tavagnacco (Ud), centro commerciale extra urbano con buone possibilità di risviluppo, venduto a una società austriaca specializzata.

I valori di queste transazioni oscillano dai 20 milioni di Tavagnacco a 160 milioni per i tre centri commerciali del nord. Con Silvia Gandellini, responsabile area investimenti in immobili a destinazione retail di Cbre Italia, facciamo il punto della situazione, con un outlook per 2019.

Per quest’anno si prevede un’attività intensa sul piano delle transazioni?

La perdurante cautela degli investitori nei confronti del settore retail nasce da un pregiudizio di matrice americana legato all’andamento del loro mercato domestico, che non trova un riscontro reale e oggettivo nella situazione europea e italiana, che presenta caratteristiche dei consumi e dell’offerta molto diverse. Ci sono due fattori di rischio che gli investitori internazionali monitorano: l’impatto dell’eCommerce in Italia, che però potrà giocare un ruolo più significativo solo nel lungo periodo (dieci anni) visto che ha ancora una bassa penetrazione, pari al 4%; e la posizione dell’attuale Governo su temi che condizionano direttamente l’universo retail, come la proposta di legge sulle chiusure domenicali e festive, un passo indietro rispetto alla legislazione in atto, che aveva liberalizzato le aperture al fine di sostenere i consumi. Questi due fattori insieme aumentano la percezione del rischio soprattutto sul retail di grande dimensione ed extra-urbano.

Oggi gli stessi proprietari di centri commerciali che funzionano, non vogliono vendere a qualsiasi prezzo, dato che questo rischio percepito non riflette la reale situazione italiana.

Negli ultimi 6 mesi si sono chiuse transazioni iniziate anche 12 mesi prima; oggi l’approccio al mercato è totalmente cambiato: diversi deal non seguono più il percorso tipico della transazione open market ma si propongono con approccio off market, cioè non si invitano più nella procedura di selezione 50-100 investitori, ma si propone l’offerta a livello one-to-one e se si trova la quadra sul deal si concede un’esclusiva e si passa a negoziare la compravendita.

L’high street è un mercato molto diverso, ritenuto dagli investitori sia domestici che internazionali più resiliente rispetto ai centri commerciali extra-urbani: gli investitori cercano sempre più immobili cielo-terra, con piattaforma retail alla base e residenziale/uffici nei piani alti. Stanno poi rivalutando le città secondarie: non più solo Milano, Roma, Firenze, Venezia, ma anche Bologna, Torino, Verona, città ricche o benestanti, quindi interessanti sotto il profilo dei consumi.

Oggi a quanto ammonta lo stock in vendita? Si vedrà un megadeal, una transazione di almeno 300-400 milioni di euro?

Attualmente ci sono sul mercato potenziali transazioni per un valore di 4 miliardi di euro, che includono grandi asset, come il centro commerciale Roma Est che da solo vale 450 milioni di euro, ma anche grandi portfoli, fra i quali gli outlet di Blackstone (800 milioni di euro) e i centri commerciali di Beni Stabili che valgono circa 110 milioni di euro. Il volume transato nel 2018 è stato di 2,3 miliardi: il nostro osservatorio registra al momento diverse transazioni con esclusive in corso per circa 1 miliardo di euro: ci sono le basi perché anche nel 2019 si raggiunga un volume transato non lontano da quello degli anni precedenti. Oltre all’operazione Romaest, ci sono anche altre potenziali transazioni di centri commerciali o factory outlet centre di grandi dimensioni in due diligence. La tendenza a disinvestire riguarda tutta l’Europa e principalmente due categorie di operatori: gli investitori opportunistici che vogliono alleggerire la propria esposizione sul retail o fondi in scadenza; e le banche in relazione alle vendite di portafogli Npl (non-performing loans, alias crediti deteriorati), nei quali possono nascondersi ottime opportunità d’investimento.

Come mai questo disallineamento tra offerta e domanda, in Italia?

La pipeline di nuovo prodotto non è consistente, ma non registriamo nemmeno un eccesso di offerta. Gli investitori nel nostro settore, cioè nel retail real estate, sono rappresentati all’80% da società straniere, e l’Italia ha bisogno che questi investitori rimangano e continuino ad investire, perché suppliscono alla mancanza di investitori istituzionali italiani nel settore retail. Questa difficoltà di armonizzare velocemente domanda e offerta si deve, appunto, anche al rischio paese. La proposta di legge sulle chiusure domenicali in un Paese, l’Italia, che era uno dei più liberalizzati d’Europa in questa materia, rappresenta un cambio di rotta repentino e apparentemente senza un fondamento logico. Come ormai è risaputo l’incertezza legislativa in un paese rappresenta il maggior fattore di rischio rilevato, che si riflette immediatamente in un atteggiamento di “wait and see” degli investitori “core”. Se vuole attrarre capitali il Governo italiano deve dare certezze, anche se alcuni investitori si sono abituati ad accettare il pacchetto Italia, instabilità comprese. Questi sono investitori opportunisti che vedono chance di comprare a prezzi più bassi anche se i centri commerciali o gli outlet sono altamente performanti. Gli investitori “core” rimangono invece attivi in paesi di riferimento più stabili come Germania, Spagna e Francia e Olanda.

È doveroso ricordare che tutti i player italiani e stranieri che hanno investito in centri commerciali nel nostro paese, a partire dal 2012, hanno fatto ottimi investimenti, sia al nord che al sud: questo conferma che il nostro mercato ha un sottostante solido e i ritorni attesi hanno ampiamente soddisfatto gli investitori.

Come vedono gli investitori esteri i nostri centri commerciali?

Gli stranieri sono consapevoli che il modello storicamente affermato di shopping degli italiani è quello del centro storico. Tuttavia, il modello di centro commerciale si è ampiamente affermato negli ultimi 20 anni anche in Italia. Cbre gestisce 55 centri commerciali, conosciamo molto bene questa realtà che è diventata un significativo luogo di aggregazione sociale e non solo di shopping per i consumatori. Il Centro di Arese ne è la dimostrazione: è l’ultima grande apertura sulla piazza milanese, ha un’ubicazione extraurbana eppure attrae più di 12 milioni di visitatori l’anno.

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