Cereali, c’è movimento in Italia (e molto da fare)

Panorama in evoluzione nell’ambito del primo Forum cereali e colture industriali organizzato da Anb e Nomisma

Dedicato ai cereali il primo evento della nuova sinergia stretta tra Anb Coop -associazione di agricoltori con più di 3.000 soci su territorio nazionale che fa parte del gruppo CGBI-Confederazione generale bieticoltori italiani-, e Nomisma attraverso il coinvolgimento della Business unit Agricoltura e Industria alimentare del centro studi bolognese. Il perché è presto detto. Anche se la produzione nazionale di diverse materie prime agricole, a cominciare dalla soia, è significativamente aumentata negli ultimi anni, viviamo ancora un deficit importante. Una situazione non nuova ma ribadita, con molti dati e tendenze, al Forum.

L’incontro ha visto anche la partecipazione di Paolo De Castro, membro delle commissioni Agricoltura e Commercio internazionale del Parlamento europeo. De Castro ha portato un aggiornamento sulle principali dinamiche in progress della politica Ue, ha fatto il punto su diversi fronti, a partire dalle colture proteaginose. E proprio parlando di soia, come ha riferito Denis Pantini, responsabile Business Unit agricoltura e industria alimentare di Nomisma, se nel 2019 la superficie coltivata in Italia era pari a circa 100.000 ettari, dieci anni dopo, dato 2019, era salita a 273.000 ettari, con un incremento del 173%. Segnando un fortissimo progresso soprattutto nelle campagne produttive tra il 2012 e il 2015. In questi stessi anni, per confronto, girasole e colza hanno fatto registrare oscillazioni, talvolta anche significative e hanno terminato il decennio a 14.000 ettari la colza e 119.000 ettari il girasole.

Per tutte questa colture, l’Italia –ha proseguito Pantini– è fortemente in deficit rispetto ai fabbisogni, sebbene lo sbilanciamento sia calato negli ultimi anni. Vediamo questi dati in termini di tasso di autoapprovvigionamento. Se nella campagna 2008/2009 la soia nazionale copriva i nostri fabbisogni per il 19%, nell’annata 2018/2019 questa aliquota è salita al 36%. Buon progresso anche per la farina di soia, che è passata dal 37% al 46%. Considerando le oleaginose, il tasso di autoapprovvigionamento del girasole è salito, in quegli stessi anni, dal 43% al 57% e ancor più significativo è l’incremento segnato dalla colza che passa dal 30% del 2008/09 al 51% del 2018/19.

Il potenziamento della produzione agricola di base per le principali trasformazioni agroalimentari nazionali, dalla pasta al riso, dalle olive alle carni, dagli altri cereali (mais, in primis) all'ortofrutta è uno degli ambiti sui quali -secondo Nomisma- il Paese deve lavorare con intensità se intende centrare gli obiettivi di neutralità climatica che il New Green Deal europeo impone nei prossimi anni.

L’Italia, dunque è storicamente in deficit per queste colture, anche perché la domanda di fonte zootecnica di questi prodotti, negli ultimi anni, è aumentata. Secondo le elaborazioni di Nomisma, tra il 2014 e il 2019 la produzione italiana di mangimi composti è cresciuta del 4%, arrivando a 14,7 milioni di tonnellate. E a determinare questa dinamica è stato soprattutto l’incremento di domanda da parte degli allevamenti avicoli, la cui consistenza, nell’ambito del patrimonio zootecnico in Italia è salita in 10 anni del 10%; mentre il patrimonio suinicolo è sceso del 7% e quello bovino del 2%, considerando sia la destinazione produttiva a latte che a carne.

Che quello mangimistico sia un settore in crescita lo ha confermato Marcello Veronesi, presidente di Assalzoo, mostrando come, tra il 2018 e il 2019, sia in termini di produzione, di fatturato che di export il settore mostri tutti segni positivi.

Dunque, a maggior ragione l’Italia è e rimane un Paese fortemente dipendente dalle importazioni di materie prima agricole. Come indicano anche i dati di Enrico Zavaglia, Trading manager Oilseed Dept Cereal Docks Spa che sottolinea come in questo ambito il deficit medio superi il 50%. E non solo, la quota di dipendenza dall’estero tende a crescere nel tempo, per una serie di fenomeni nostrani in atto da anni: distruzione di suolo in pianura per altre destinazioni, erosione, abbandono di zone collinari e comunque marginali.

Allargando lo sguardo, Zavaglia indica che la produzione mondiale di semi di soia nel 2019/2020 è stata pari a 337,5 milioni di tonnellate, quando nel 2010 era ferma a 275 milioni di tonnellate, con una progressione di quasi il 23%. In questi dieci anni il Brasile è diventato il principale produttore mondiale, passando da 81 milioni di tonnellate del 2010 a 124 milioni di tonnellate del 2020 (+53,1%), superando gli Usa, storicamente il principale produttore mondiale di semi di soia che, nello stesso periodo, partendo da 91 milioni di tonnellate sono arrivati a 96,68 milioni di tonnellate (+6,1%).

Terzo produttore mondiale si conferma l’Argentina, con una produzione rimasta stabile attorno alle 50 milioni di tonnellate. Secondo le stime presentate da Zavaglia per la prossima annata produttiva, tutti questi paesi incrementeranno la propria produzione. E sensibilmente, perché si parla un passaggio dalle attuali 69,68 milioni di tonnellate a 112,2; mentre il Brasile punterà a 131 milioni di tonnellate partendo dalle 124 di oggi, e infine l’Argentina porterà la produzione da 50 a 53,5 milioni di tonnellate.

A livello mondiale, la produzione è dunque concentrata nel continente americano e segnatamente in Sud-America. Questo fatto, insieme al forte deficit di materie prime alimentari che contraddistingue il nostro Paese deve porre segnali di attenzione. Come ha sottolineato Enrico Zavaglia, anche la vicenda Covid-19 che, a causa di blocchi delle partenze delle navi dai porti sudamericani, ha incendiato nelle scorse settimane i prezzi dei semi proteici, ci insegna come sia rischiosa una così forte dipendenza dalle importazioni, soprattutto se si continua a lavorare in una logica di “just in time” e di scorte basse.

Il punto sul grano saraceno
Il punto sul sorgo
Il punto sul riso
Là nel delta del Po

 

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