Il ritorno ai livelli pre-crisi è rimandato. Il trimestre in corso, atteso fino a poco tempo fa come quello del Pil nuovamente ai livelli 2019, grazie a una dinamica dei consumi finalmente robusta, rischia di avviare un nuovo ciclo recessivo. Gli allarmi in tal senso si sono succeduti nelle ultime settimane, compresa la Banca d’Italia, che ha rilevato una chiusura di primo trimestre con l’economia nazionale in calo dello 0,7% e “un’incertezza quantificabile in mezzo punto percentuale al di sopra e al di sotto della proiezione centrale”. Tradotto in pratica, un altro trimestre con il segno meno indicherebbe che siamo in recessione.
Allarme rosso a scaffale
Segnali preoccupanti arrivano anche dall’ultimo Osservatorio Congiunturale Centromarca, redatto semestralmente in collaborazione con Ref Ricerche. Dalle interviste ai manager di circa 200 industrie di marca alimentari e non aderenti all’associazione emerge che nel primo trimestre dell’anno le vendite sono aumentate o molto aumentate nel 48% dei casi. Si tratta di un dato sensibilmente inferiore al 60% della rilevazione precedente (settembre 2021). In parallelo resta al 24% la quota di coloro che non riscontrano particolari variazioni. Intanto peggiora l’outlook: a fine marzo solo il 33% degli intervistati ha detto di attendersi un aumento contro il 43% registrato a settembre scorso.
Sullo scenario dei consumi pesa soprattutto la crescita dei costi unitari di produzione, determinata dalle forti tensioni presenti nei mercati delle commodity. Quasi l’intero campione (per la precisione il 98%) indica un incremento di questo fattore superiore al 2%. Rincari superiori al 5% sono attesi per energia (si è espresso così il 49% delle aziende), materie prime (47%), imballaggi (46%) e trasporti (40%). Per il 65% dei rispondenti il prezzo dell’energia continuerà ad aumentare.
Ricadute sui consumatori
Fino a questo momento l’industria di marca ha trasferito solo in parte gli incrementi di costo sui prezzi al consumo. Questo trend emerge confrontando il dato del 58% tra coloro che registrano incrementi di costo superiori al 2% e quello del 39% di chi dichiara di aver mantenuto invariati i prezzi di vendita.
Tenendo conto della dinamica dei costi e delle prospettive dei ricavi, il 46% delle aziende ipotizza una contrazione dei profitti oltre il 4%, il 47% prevede sostanziale stabilità e il 7% una loro crescita superiore al 4%. Per quanto riguarda la dinamica della domanda - dati l’andamento dell’inflazione e il quadro economico - il 77% degli intervistati indica che nel 2022 i consumatori ridurranno la spesa in beni di consumo, mentre il 21% ritiene che i livelli rimarranno stabili.
“La drammatica crisi ucraina amplifica l’effetto combinato della pandemia e delle tensioni sui prezzi di materie prime e beni energetici”, sottolinea Roberto Bucaneve, direttore di Centromarca. “Il risultato sono comportamenti di spesa più prudenti da parte dei consumatori. Le strategie delle industrie devono quindi confrontarsi con rilevanti incrementi dei costi di produzione e con l’incertezza legata alla capacità del mercato a valle di assorbire aumenti dei prezzi in linea con la dinamica dei costi”.
La tenaglia in atto
A marzo l’Istat ha rilevato un’inflazione al 7% nel confronto annuo (ai massimi dai primi anni Novanta), che ha confermato la tendenza all’accelerazione rilevata da inizio 2021. Questo a fronte di un peggioramento del clima di fiducia sia tra le famiglie, sia tra le imprese, fortemente influenzate dal conflitto in Ucraina. Una prospettiva che inevitabilmente pesa sulle scelte relative a consumi e investimenti, mentre di pari passo in seno alla Bce cresce la pressione per avviare il trend di rialzo dei tassi d’interesse. Se finora a Francoforte ha prevalso la prudenza, per il timore di soffocare la ripresa economia, il permanere di un’inflazione su livelli elevati potrebbe far prevalere chi spinge per la stretta. Si rischia una tenaglia per l’economia reale.