La nuova cultura start up può uccidere l’imprenditorialità

Molti giovani neo imprenditori ambiscono a vendere le loro aziende il più rapidamente possibile piuttosto che vederle crescere nel tempo. Forse stiamo assistendo ad un cambiamento del paradigma classico dell’imprenditorialità.

Più o meno un anno fa, navigando distrattamente per il web, mi sono imbattuto nei risultati della ricerca Ipsos presentata al Miur dal titolo “Educazione imprenditoriale. Impatto ed effetti di una scuola che innova”. Secondo tale ricerca oltre il 60% dei giovani intervistati ha dichiarato di voler diventare un imprenditore.Effettivamente, basta entrare in qualsiasi aula delle nostre università per averne riscontro. Così, un po’ la curiosità, un po’ la “deformazione professionale da ricercatore” mi hanno spinto a chiedere ai miei studenti: “Cosa vuoi fare da grande?”.

Le risposte sono state in linea con i dati della ricerca Ipsos. A sorprendermi, però, non è stata la voglia di imprenditorialità dei miei studenti, ma le argomentazioni. Ho così appreso che essere “imprenditore” significa per la maggior parte di loro fondare una start up nel campo della tecnologia, delle app, essere ambiziosi e innovativi. L’evidenza, inoltre, è che questi giovani vivono nell’idea del “Nulla è impossibile” o del “Se vogliamo possiamo”.

Non nascondo che per uno che ha sempre pensato all’impresa come ad una attività volta alla produzione di beni/servizi che soddisfano le esigenze dei consumatori, organizzata in modo da creare e mantenere il vantaggio competitivo, le idee degli studenti hanno rappresentato motivo di riflessione.

Ho così iniziato qualche ricerca più approfondita. Secondo un rapporto del Censis, in cui vengono riportati i dati del Registro delle imprese del Ministero dello Sviluppo Economico, vi è una “persistente vocazione all’imprenditorialità” da parte dei giovani italiani. Infatti, secondo UnLtd, più della metà dei giovani possiede l’ambizione di creare una propria impresa.

Il fatto di per sé, è positivo. Il problema, a mio avviso, è che, sempre secondo UnLtd, i giovani vivono nel sogno di una nuova “cultura start up” perpetuata dal web e dai mezzi di informazione: app di successo, Facebook, idee rivoluzionarie, ricchezza facile. Sto parlando di una cultura secondo la quale solo se si possiede un’idea “disruptive” o “killer”, preferibilmente basata su una app e finanziamenti sufficienti da parte di società di venture capital si riesce a conquistare il mercato.

Con tale mentalità, il paradigma del “soddisfare le esigenze del consumatore” passa in secondo piano. L’idea deve essere rivoluzionaria, tecnologica, innovativa. Ai giovani imprenditori che la sviluppano non interessa certo lavorare sulla quadratura di bilancio o sulle ricerche di mercato per il prodotto. Al contrario, vivono nella convinzione che basti avere denaro da spendere per guadagnare e che se non si riesce a vendere il prodotto è a causa di una sbagliata strategia di marketing.

Nei casi in cui le start up hanno successo, inoltre, la massima aspirazione dei giovani imprenditori non è creare un business durevole con un piano di lunga durata, ma far crescere il più possibile l’appeal dell’impresa in modo da poterla poi vendere a qualche grande azienda.

Si sta diffondendo, infatti, la figura del cosiddetto “imprenditore seriale” che spostandosi da un progetto ad un altro avvia attività con il solo scopo di un guadagno importante in poco tempo. L’idea, dell’imprenditore che crea la “sua” azienda e la fa crescere viene ormai considerata “classica” o forse addirittura “vintage”; al contrario, l’imprenditore di successo è colui che vende la propria start up per una somma di denaro che “cambia la vita”.

Tale cultura, nella quale l’aspirazione imprenditoriale diventa successo se premiata con un grande guadagno, trascura del tutto la realtà del business e, se vogliamo, anche le regole classiche della strategia d’impresa, della costruzione del vantaggio competitivo e del suo mantenimento. La corretta esecuzione di un business, infatti, richiede competenze, senso di maturità e, soprattutto, esperienza. I giovani, invece, spesso escono dalle università ispirati da storie come quelle di Mark Zuckerberg o Jan Koum, fondatori rispettivamente di FaceBook e Whatsapp, e avviano imprese a prescindere dalla loro assenza totale di esperienza lavorativa, aumentando in tal modo le probabilità di fallimento.

Non penso che, allo stato attuale delle cose, tale nuova cultura sia destinata a scomparire presto. Forse, però, un maggior riferimento ai valori dell’imprenditoria classica costituirebbe un importante passo avanti verso giovani imprenditori più consapevoli.

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