La sfida del better normal

Quale normalità per il dopo? Occorre interrogarsi e trovare un senso nuovo, nuovi obiettivi, nuovi valori su cui fondarsi

In un anno segnato da sofferenza e incertezza emerge una richiesta costante: individuare una direzione comune, affrontare un salto di immaginazione, sostenere una mitologia felice collettiva, un’utopia realizzabile. La fatica che abbiamo fatto in questi mesi di lockdown è stata infatti anche concettuale. Accettare quote di incertezza cui non eravamo più abituati, gestire una fragilità personale e familiare che pensavamo aver definitivamente lasciato alle nostre spalle come doloroso ricordo delle generazioni precedenti, caricarsi di responsabilità sociali e civili che erano scomparse dal nostro orizzonte esistenziale. Accettare fragilità e incertezza per un manager è compito quasi impossibile, è una sensibilità che non è stata mai insegnata, anzi chi la viveva nella sfera personale, veniva scoraggiato a utilizzarla nella vita professionale. Oggi tutto è cambiato: queste responsabilità segneranno la nuova piattaforma valoriale da cui ripartire.
Il mondo della comunicazione e dei media a sua volta ha reagito in modo scomposto, di- mostrando la stessa impreparazione e inadeguatezza: dopo la prima reazione di generico solidarismo è entrata negli ultimi mesi in una fase asfittica. Mancanza di respiro e di pensiero lungo. Non si tratta tanto dell’infodemia su cui troppo si è insistito: si è accusato i media di parlare sempre e solo del virus. Ma in una vicenda epocale come questa di cosa altro dovremmo parlare?

GLI INTERROGATIVI

Chi ci ha provato ha rischiato la stonatura ... No, non è tanto questo il problema, ma piuttosto l’incapacità di fare un salto di qualità, focalizzandosi sulle necessità del durante e del dopo, evitando sterili discussioni (ad esempio contro o a favore dello smart working, laddove è evidente che in futuro vincerà una formula mista ...) e prendendo il toro per le corna. Quale normalità desideriamo per il dopo? Quale contributo personale siamo disposti a mettere in campo? Quali attitudini manageriali siamo disposti a mettere in discussione? È l’intero mondo della cultura d’impresa che deve interrogarsi e trovare un senso nuovo, nuovi obiettivi, nuovi valori su cui fondarsi. Rileggere Comunità di Adriano Olivetti potrebbe aiutare, incoraggiando a imboccare la direzione non tanto del new normal, ma piuttosto del better normal.
Nei prossimi mesi avremo bisogno di antidoti e vaccini per difenderci, ma soprattutto di ricostituenti per ripartire: non solo riavviando la macchina, ma ridefinendo e ridistribuendo risorse e responsabilità. Ripartire significa non solo ripartenza, ma anche ripartizione. La speranza diventa il ricostituente in questa condizione di fragilità. La speranza implica non solo l’idea di un risultato realizzabile, ma comporta anche che quell’idea funzioni -sul piano della motivazione- come compensazione per l’incertezza del risultato. Non coincide quindi con l’ottimismo (andrà tutto bene!) che non ha funzionato, ma con la consapevolezza: combina il forte desiderio di un esito positivo con la sensazione che questo potrebbe non realizzarsi. La speranza appare un piacere anticipatorio, che si gioca nel futuro e nel desiderio. La speranza condivide lo statuto di ogni realtà fragile e bisognosa di cura: che si nutre, si accarezza, si coltiva. Come l’amore, la speranza si impara e può accadere laddove, pur alimentandosi della propria incertezza, essa resista al suo naufragio e diventi realtà generativa. Questa è la sfida che ci attende e nei prossimi mesi dovremo attrezzarci per affrontarla. La cultura d’impresa non ha mai seriamente sviluppato un pensiero di speranza e, se lo ha fatto, lo ha considerato un lusso, la ciliegina di una torta che era tutta solo economica: oggi la ciliegi- na deve essere impastata con il lievito della torta, da far crescere e poi mettere in forno.

UN MONDO DEFINITO

Su questo le persone sembrano essere più avanti delle aziende, riuscendo a interpretare nel modo corretto il grande balzo in avanti costituito dal digitale. Dall’innovazione soft, eterea, delle immagini e delle nuvole (clouds), dei social e delle community, si sta via via passando a una innovazione che traduce l’indefinito della rete in un mondo definito che permette di rinsaldare affettività, di aprire a nuove opportunità relazionali, esplorando passioni, luoghi, cultura e conoscenza, di offrire servizi a beneficio delle persone e della comunità più prossima, toccando un ambito sentito come di primaria importanza se non addirittura di primaria urgenza: proteggere l’ambiente e la natura. Se appare assodata l’importanza del digitale con le potenzialità innovative della tecnologia già oggi a disposizione, gli italiani indicano con chiarezza gli ambiti prioritari sui quali aziende e istituzioni dovrebbero investire di più in termini di innovazione tecnologica. La cura del territorio, la salute della persona, la difesa e il sostegno al lavoro sono i nodi critici da cui ripartire per un futuro che appare tanto nuovo quanto molto più etico. Non solo new normal, ma better normal. I singoli individui, con le proprie personali esigenze -una casa più accogliente e attrezzata, una mobilità più fluida e meno inquinante, la facilità di pagamenti anche nei punti di vendita fisici che così si adeguano all’innovazione digitale- e le personali passioni -culturali o di svago nel tempo libero- riconoscono le potenzialità del futuro digitale e connesso a che il mondo possa diventare migliore, per tutti.

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