La sostenibilità della spesa farmaceutica in Italia

I medicinali, nel nostro Paese, costano fino al 20% in meno rispetto ai principali mercati Ue. Un recente studio di Farmindustria spiega perchè (da Mark Up n. 283)

I farmaci sono troppo cari? Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria (l’associazione delle imprese del farmaco aderente a Confindustria) ci spiega perché questa percezione, piuttosto diffusa fra gli italiani, non corrisponda al vero e come, al contrario, le aziende produttrici e lo Stato, insieme, siano impegnati ormai da diversi anni per mantenere il prezzo dei medicinali sotto la media europea.

Quanto spendiamo per le medicine nel nostro Paese?

Meno di quanto si creda, se rapportiamo i prezzi dei nostri medicinali a quelli praticati all’estero. Nel 2018, la spesa farmaceutica pubblica (al netto dei payback e della quota di ripiano) è stata di 290 euro pro capite, cioè 80 centesimi al giorno. Un valore inferiore del 25% alla media dei principali Paesi europei, il più basso anche includendo la spesa privata: in questo caso, ci manteniamo attorno al -15%. Analizzando l’andamento della spesa negli anni precedenti, il prezzo dei medicinali si è sempre attestato su un 15-20% in meno.

A cosa è dovuta questa situazione?

In primo luogo, bisogna tener presente che i prezzi dei medicinali in Italia non sono liberi, ma vanno negoziati con l’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco: noi come aziende non possiamo imporre un prezzo, ma lo dobbiamo discutere con l’Aifa che, dopo avere valutato il rapporto costi-benefici del medicinale, ne definisce il costo. Se la contrattazione è andata a buon fine, viene pubblicata l’autorizzazione all’immissione in commercio del medicinale, il cui importo viene rimborsato dal servizio sanitario nazionale. Oltre a questo, l’Italia è prima al mondo per contratti innovativi di remunerazione dei farmaci, un fattore che concorre ad abbassare la spesa complessiva.

Di cosa si tratta?

Stiamo parlando di accordi ad hoc, stabiliti sempre in fase di negoziazione con Aifa, che prevedono il pagamento del nuovo farmaco solo se funziona, ovvero se dà il risultato atteso; se il medicinale non soddisfa le aspettative, lo Stato non lo rimborsa, o lo fa solo parzialmente. Su queste modalità di pagamento in base al risultato, deteniamo un primato: il nostro Paese è quello dove se ne sottoscrivono di più al mondo (36%), rispetto ad altre nazioni; la quota in Francia, Germania e Spagna è sotto il 5%.

Altri elementi che incidono sulla formazione del prezzo?

L’ambito farmaceutico è l’unico della spesa pubblica italiana sotto controllo perché, dall’inizio dell’anno, si sa quanto si spenderà alla fine dei dodici mesi successivi. Nel 2018 lo Stato aveva stabilito di investire, fra farmaci venduti in farmacia e in ospedale, una cifra che non superasse il 14,8% della somma stanziata per la spesa sanitaria complessiva.

Una percentuale che non si può sforare?

Mentre in altri settori, quando l’acquirente ha finito il proprio budget, il produttore smette di fornire la merce, per il farmaco, trattandosi di un bene primario per la salute; quindi le aziende continuano a fornire il prodotto, anche quando si supera la soglia fissata. A fine 2018, poiché lo Stato aveva speso più del 14,8% previsto, noi aziende del farmaco abbiamo restituito quanto dovuto (50% del totale, la parte restante spetta alle Regioni), sulla base degli sforamenti evidenziati. In media, ogni anno torna nelle casse statali un miliardo di euro, dato che si supera il tetto di spesa definito. Di recente, per esempio, abbiamo pagato allo Stato oltre 2 miliardi per sforamenti negli anni 2013 e 2017. In tal modo, anche a fronte di una forte richiesta di determinati farmaci, per via di questo meccanismo il paziente spende sempre la stessa cifra.

La diffusione di farmaci generici e biosimilari ha concorso alla riduzione della spesa farmaceutica?

Ha certo contribuito. La vendita di medicinali a brevetto scaduto, sia generici sia con marchio (per i quali il SSN sostiene lo stesso costo), rappresenta oltre l’80% della spesa. In questo ambito, la quota di mercato dei prodotti generici riferita alle confezioni vendute dal 2003 in poi è aumentata dal 3 al 22%. A ciò si aggiunga che l’Italia, nel 2018, è stato il primo Paese, fra i 7 big europei, per consumo di biosimilari (36% del totale, davanti alla Germania, 25%), con una quota di mercato più elevata della media europea: 18% rispetto a 10%. Ciò detto, il risparmio sulla spesa farmaceutica va valutato anche in relazione al welfare sanitario: se quest’ultimo è efficiente, consente di eliminare i costi lungo il processo assistenziale.

Qualche esempio concreto?

Nel caso dell’epatite C, prima dell’avvento dei nuovi farmaci, in Italia si spendeva più di un miliardo di euro all’anno per trattare i malati. Oggi questi costi sono evitati grazie ai medicinali, e i pazienti trattati raggiungeranno i 200.000 entro la fine di quest’anno. In campo oncologico, inoltre, tra il 2005 e il 2015, la spesa totale è diminuita dell’11%, pur essendo quella farmaceutica raddoppiata.

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