L’agroalimentare italiano rivendica la centralità

Il punto di vista dell'agricoltura – Coldiretti è categorica: nel food sono gli ingredienti che determinano il made in Italy. Mark Up ha chiesto al presidente Roberto Moncalvo un parere sulla situazione attuale.

Con l’Expo si apre una grande opportunità per promuove il food italiano. Siete favorevoli a introdurre il made in Italy per l’alimentare?

Per noi è prioritario che venga attuata la legge nazionale approvata all’unanimità dal parlamento che obbliga ad indicare in etichetta la provenienza delle materie prime e che le lobby interessate cercano di bloccare anche con manovre poco trasparenti. Un sistema basato su un marchio volontario del Made in Italy ci preoccupa fortemente perché si tradurrebbe in un grande regalo a quella parte di agroindustria e di mala cooperazione che intende il Made in Italy come una vicenda legata solo alla ricetta e che sarebbe libera di continuare ad etichettare come Made in Italy i propri prodotti pur senza utilizzare il marchio. Una vicenda importante come l’etichettatura per garantire la completa trasparenza nella filiera non può essere legata dunque alla volontarietà, ma deve tradursi in una regola obbligatoria e vincolante per tutti. Ricordo inoltre che l’etichettatura ci viene richiesta dagli stessi consumatori e rappresenta un valido strumento per eliminare i tanti angoli bui nei quali si inserisce anche la criminalità organizzata.

Secondo Federalimentare, il Made in Italy nel food non è ancorato alle materie prime. L’esempio del caffè è eloquente. Cosa ne pensate?

Non è l’oste che decide se il vino è buono ma chi lo deve comperare e tutte le recenti indagini dimostrano che la stragrande maggioranza dei consumatori in Italia, in Europa e nel mondo vogliono conoscere la provenienza dei prodotti agricoli impiegati negli alimenti. E gli italiani che hanno la fortuna di vivere in un paese dai primati qualitativi e sanitari delle produzione agricola hanno una ragione in più. La miope logica di vedere legato solo alla ricetta il concetto di Made in Italy, intendendolo come un filone aurifero inesauribile basato solo su un racconto e completamente scollegato dal prodotto agricolo e dal territorio, è una logica utile solo per poter continuare a comprare ciò che costa meno, mettendo in secondo piano la qualità e la sicurezza degli ingredienti acquistati. È un modello perdente quello che non è legato alla distintività dei nostri prodotti e dei nostri territori, un modello che spesso diviene l’anticamera della delocalizzazione. È quindi impossibile pensare di contrastare l’italian sounding usando solo le ricette. La nostra distintività, lo ripeto, sta nel legame tra prodotti e territorio.

L’impiego di un’etichettatura che comprenda l’ingredientistica è un obiettivo soddisfacente?
Per le ragioni dette sopra certamente no. E lo dicono i consumatori. Gli alimenti non sono bulloni ed il luogo e il modo in cui sono coltivati i prodotti agricoli o allevati gli animali ne influenza molto le caratteristiche. Il consumatore deve quindi poter scegliere consapevolmente.

Attualmente vi è un forte squilibrio tra produttori di materie prime e industria in termini di ricavi. Cosa suggerite per correggere questa situazione?

Questa è una domanda che andrebbe posta a chi consente che il Made in Italy agroalimentare subisca un’erosione di immagine che avviene attraverso la “trasformazione” di materia prima estera in “prodotti italiani”. Il danno è doppio: opacizzazione di una dimensione immateriale ad alto valore aggiunto e contemporanea destrutturazione delle nostre piattaforme produttive con perdita di posti di lavoro. Di fronte alle troppe titubanze noi ci siamo impegnati direttamente con la rete di Campagna amica volta a favorire la vendita diretta dei produttori, con il marchio valoriale FAI (firmati dagli agricoltori italiani) per portare i prodotti dell’agricoltura italiana sugli scaffali della grande distribuzione garantendo un’equa ripartizione del reddito.

A livello governativo, quali politiche auspichereste per favorire l’agricoltura italiana?
Sostenere con trasparenza, decisione e coraggio il nostro modello di sviluppo sostenibile che offre prodotti da primato sul piano qualitativo e sanitario, realizza un valore aggiunto per ettaro di terreno ovvero praticamente il doppio di quella di Francia e Spagna, il triplo di quella inglese ed una volta e mezzo quello tedesco. Un modello che ha puntato sulla distintività e sulla multifunzionalità inserito in un circuito virtuoso che va dal paesaggio ai territori.

Immaginando di attivare le politiche più efficaci in tal senso, la produzione esclusivamente italiana ha le potenzialità quantitative per soddisfare la domanda? E se no, quale obiettivo è ipotizzabile?

La realtà conferma che se ci sono le condizioni economiche l’agricoltura italiana è in grado di rispondere adeguatamente alla domanda. In pochi anni si sono ad esempio moltiplicati le aziende ed i mercati degli agricoltori campagna amica che vendono direttamente di fronte alla crescente domanda dei consumatori. Al contrario a causa delle importazioni di carne di maiale dall’estero per ottenere prosciutti da spacciare come Made in Italy, vertiginosamente aumentate negli ultimi tempi, sono scomparsi seicento cinquanta mila maiali e soprattutto ottomila posti di lavoro in un solo anno. Per fare esprimere le potenzialità della nostra agricoltura bisogna dire basta alla concorrenza sleale con l’obbligo di indicare in etichetta la provenienza dei prodotti agricoli impiegati ma anche rendendo pubblici i flussi dei prodotti importati dall’estero e venduti come “italiani” che al momento sono addirittura secretati, quasi fossero un segreto di Stato!

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