L’export agroalimentare italiano sotto pressione

Lo scenario internazionale ha raggiunto una configurazione non favorevole al raggiungimento dei 50 miliardi di export nel 2020. Il punto della situazione tracciato da Nomisma (da Mark Up n. 255)

La  Brexit,  l’elezione  americana  con  la  fine  del  Ttip  e  l’embargo  russo.  Per
Nomisma il trend non è favorevole anche se la crescita dei consumi interni e il Ceta possono riservare sorprese positive. Mark Up ha incontrato Denis Pantini di Nomisma, per fare il punto della situazione e delineare i trend futuri.

L’obiettivo dei 50 mld di export agroalimentare nel 2020 è ancora valido?
Negli ultimi cinque anni, vale a dire dal 2010 al 2015, i tassi medi di crescita annui dell’export agroalimentare italiano si sono attestati attorno ad un 6%. Nel 2015, il valore raggiunto di 36,8 miliardi di euro di esportazioni è stato determinato da una crescita del 7,4% rispetto all’anno precedente. Circoscrivendo poi tale aumento ai primi otto mesi, la variazione è risultata ancora superiore, pari  all’8%.  Insomma,  molto  distante  dal  +3,1%  messo  a  segno  quest’anno nel periodo gennaio-agosto. Questo lascia presagire un 2016 che seppur in crescita risulterà sottotono rispetto agli anni precedenti. Considerando il livello raggiunto a fine 2015, per arrivare quindi al traguardo dei 50 miliardi di euro entro il 2020, l’export dovrebbe crescere ad un ritmo del 6,3% annuo, una percentuale molto distante da quanto registrato in questo scorcio di 2016. Se infatti la crescita si attestasse nei prossimi anni su un tasso più ridotto e in linea con quanto messo a segno nei primi 8 mesi di quest’anno allora la soglia dei 50 miliardi di euro rischia di essere superata - a parità di condizioni - solamente nel 2024.

L’uscita della GB dall’Ue come potrà impattare sull’export agroalimentare?
Il  Regno  Unito  rappresenta  il  quarto  mercato  di  destinazione  dell’agroalimentare  italiano,  pesando  per  circa  il  9% sul totale dell’export di settore. Sebbene sia alquanto improbabile un distacco radicale dalle regole del mercato comune (con il rischio di introduzione di dazi all’import o barriere non tariffarie) quanto piuttosto sia ragionevole pensare  -anche  per  interesse  degli  stessi  inglesi-  ad  un  accordo  sulla  falsariga  di  quello  in  vigore  con  la  Norvegia  e  l’Islanda (area economica europea), il vero fattore critico che può impattare sulle nostre esportazioni è dato dal tasso di cambio euro/sterlina che se dovesse ulteriormente rafforzarsi potrebbe creare disparità  competitive  nei  confronti  dei  paesi concorrenti che dovessero trovarsi ad essere meno coinvolti dalla svalutazione della sterlina, oltre al fatto che nell’eventualità  di  un  distacco  radicale- potrebbero verificarsi condizioni di accesso al mercato britannico più favorevoli per competitor non europei (a seguito, ad esempio, di accordi preferenziali). Brexit non può essere considerata un’opportunità perché l’isolamento della Gran Bretagna comporterà necessariamente, ai fini di un aggiustamento economico interno, una sterlina strutturalmente debole.

La  firma  del  Ceta  porterà  concreti  vantaggi all’agroalimentare italiano?
Indubbiamente.  Sia  per  quanto  riguarda l’eliminazione delle barriere tariffarie (nel caso dei prodotti lattiero-caseari si arriva anche al 250%) che per la tutela delle indicazioni geografiche che, per  quanto  non  sia  il  miglior  accordo  possibile  per  i  produttori  italiani  (perché  modula  la  tutela  sulla  base  di  diritti  pregressi  e  permette  la  coesistenza delle Dop/Igp con prodotti evocativi), rappresenta indubbiamente un passo avanti rispetto alla situazione attuale dove non esiste nessuna forma di tutela e riconoscimento delle indicazioni geografiche.  Basti  pensare  al  paradosso che per più di 15 anni ha interessato il Prosciutto di Parma Dop che non poteva essere commercializzato in Canada con la propria denominazione (veniva venduto come “Prosciutto originale”) a causa di un marchio analogo precedentemente registrato e detenuto da una società canadese.

Il  rallentamento  dell’export  italiano,  quanto è dovuto a limiti strutturali interni e cosa si può fare per superarli?
La propensione all’export dell’industria alimentare italiana è mediamene pari al 23%, ma scende ad appena il 7% nelle aziende con meno di 9 addetti e supera il  30%  nelle  medio-grandi.  Minori  dimensioni implicano spesso minori dotazioni competitive che possono derivare non solo da ridotte disponibilità di risorse economiche necessarie per gli investimenti, ma anche di capitale umano specializzato,  propensione  all’innovazione, dotazioni tecnologiche, tutti fattori che incidono sull’internazionalizzazione. A ciò si sommano i limiti strutturali del“Sistema Paese”: dotazione infrastrutturale, costi energetici, pressione fiscale, sistema burocratico/amministrativo, mancanza di piattaforme o operatori distributivi all’estero.

Quali sono i fattori evolutivi e i trend per l’agroalimentare che nel 2017 potrebbero emergere?
Nel  corso  del  2016  si  sono  (e  si  stanno)  verificando  eventi  i  cui  riflessi  rischiano di portare ad impatti più negativi che positivi per l’agroalimentare italiano  (Brexit,  mantenimento  embargo Russia, Trump alla presidenza Usa), i  cui  effetti  dovrebbero  farsi  sentire  a  partire dall’anno prossimo. L’auspicio è che in realtà questi impatti non risultino così pesanti come si teme, anche perché stiamo parlando di alcuni tra i più importanti mercati di destinazione dell’export agroalimentare italiano. Al di là di questi fattori “destabilizzanti”, ci si augura  che  la  flebile  ripresa  del  mercato  interno registrata nel 2015 possa rafforzarsi ed intraprendere un recupero che manca da troppo tempo ai produttori italiani. Globalmente parlando, le potenzialità per crescere ci sono. Il problema è che i percorsi di sviluppo si stanno facendo sempre più in salita e tortuosi.

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