L’impresa oltre il tempo della crisi

Il cuore della recovery è la condivisione e il coinvolgimento dei collaboratori e della comunità. Per superare anche l’impatto del Coronavirus (da Mark Up n. 288)

Le aziende sono delle organizzazioni vive e complesse che hanno diverse analogie con gli organismi viventi. Anch’esse subiscono gli insulti ambientali che, se diventano soverchianti, possono metterne in pericolo la vita stessa. Le crisi possono essere superate se le imprese hanno accumulato nella loro storia del valore spendibile e se sanno organizzarsi efficacemente per il recovery. Tuttavia la complessità delle situazioni può descrivere spesso scenari molto diversi che però convergono su un effetto economico-finanziario o di liquidità traumatico e di difficile risoluzione. Le situazioni possono essere molto diverse, dai disastri ambientali generati dalla stessa organizzazione, incidenti con vittime, scandali che distruggono una comunità e lo stesso valore del brand nell’arco di poche ore, ecc. Sono individuabili, infatti, anche una serie di emergenze esterne, del tutto indipendenti dall’operato dell’azienda, come terremoti, pandemie, insolvenza dello Stato, atti terroristici, scontri (o guerre) civili che compromettono l’operatività, ecc. ferendo il tessuto economico e danneggiano la coesione sociale.

Ecco perché alla cultura aziendale si deve affiancare la cultura della crisi. La prima permette di gestire la crescita e lo sviluppo; la seconda di attraversare periodi di difficoltà, anticipandone e gestendone i sintomi. Nella crisi si è riscoperto il valore delle competenze, fondamentali nella cassetta degli attrezzi del manager (o del consulente) che deve gestire situazioni di crisi o, meglio, nella valigetta di questo “medico d’azienda”. Questo è anche dovuto al fatto che qualsiasi emergenza produce una fase di disfunzionalità, compromettendo routine, equilibri e automatismi organizzativi. In assenza di un programma di recovery, l’azienda rischia di rimanere appunto in una persistente disfunzionalità, cioè in uno stato vulnerabile permanente, sul piano della cultura e della sostenibilità del business. Di fatto, il “malato-azienda”, trascura i sintomi e le avvisaglie, e si trova a letto con gravi sintomi, che, nei casi più estremi, lo fanno finire direttamente in ospedale con gravi complicazioni.

In un tale contesto, le crisi possono manifestarsi con tratti evolutivi, dettati, ad esempio, dal cambio di un paradigma organizzativo o dalla digital transformation finalizzata alla crescita. Oppure situazionali, risultanti da emergenze esterne e interne che minacciano l’esistenza dell’organizzazione. Le crisi evolutive servono al fine ultimo del progresso, implementando un cambiamento che serve per migliorare e per competere. Le crisi situazionali, invece, essendo determinate da un accadimento inaspettato interrompono improvvisamente le normali attività con ripercussioni sull’organizzazione, sui servizi, sui prodotti, sugli stakeholder e sulla reputation. Tale emergenza genera una sensazione di impotenza, fragilità, ed instabilità per il futuro, innescando nella comunità dinamiche proprie di un trauma collettivo. Da tale shock derivano minore produttività e un aumento del turnover tra i collaboratori, interferendo pesantemente sulle risorse capaci di generare valore sociale ed economico: dal danneggiamento delle infrastrutture fisiche e digitali, all’incolumità delle persone fisiche, intaccando tutti i processi della supply chain. Dato che non è possibile sapere se e quando una crisi situazionale, innescata da un disastro naturale o da altre cause, colpirà l’azienda, vi è sempre la necessità di cautelare preventivamente gli asset aziendali, ovviamente in primis quelli umani. Oggi, al tempo della data economy, anche i dati rientrano nella categoria da tutelare ai massimi livelli, evitando una loro perdita; ecco perché vanno sempre prese in considerazione speciali polizze assicurative da valutare anche in base l’evoluzione dell’offerta. Tutto questo avviene in ottica di business continuity, ovvero di continuità aziendale, attraverso la predisposizione di misure di organizzazione preventiva, che deve essere il più respondent possibile in caso d’emergenza.

In questo quadro, tutt’altro che roseo, si inseriscono anche le cronache di questo anno 2020, con l’epidemia che a fine 2019 sembrava destinata al solo connotato di “cinese”, e che è, invece, diventata un problema mondiale ed italiano in particolare. È ormai chiaro che dietro il disastro sanitario della pandemia Coronavirus, si leggano in controluce gli effetti, per farsi con il tempo che passa sempre più marcati, di una “pandemia economica”, ovvero una pesante recessione mondiale, che è inasprita da una “pandemia geopolitica”, innescata dall’isolamento e dalla chiusura di frontiere e arresto degli scambi.

Questo scossone dato dalla crisi sanitaria del Coronavirus, essendo di natura situazionale, ed aggredendo anche parti del mondo -come l’Italia- che, fortunatamente, non sono soggette con frequenza a repentini sconvolgimenti di cotale impatto, creano diffusa apprensione. Infatti, se in molti paesi europei la probabilità che un fatto politico o biologico generi un’emergenza è piuttosto bassa, al contrario, la probabilità che, nel tempo, un evento colpisca l’azienda in un suo prolungamento in un altro paese o mercato è elevata. Si tratta proprio del lato oscuro di una supply chain globale, molto più esposta agli eventi internazionali.

Qualsiasi sia la natura di queste crisi, la loro gestione richiede forti competenze di leadership sotto pressione: si tratta di prendere, in poco tempo, le migliori decisioni in un contesto di confusione e caos, spesso riguardanti situazioni senza precedenti in tempi recenti, al fine di traghettare le persone attraverso disagi ed instabilità, catalizzando le loro capacità resilienti e ispirandole ad andare oltre. In primis, il leader deve, allora, venire a patti con sé stesso, accettando e governando l’incertezza di un futuro con finali aperti, e cercando di mettere a segno rapidamente dei risultati positivi, dei quick win, per validare il nuovo percorso di recovery e ristabilire la fiducia. Il tutto si rivelerà funzionale se in presenza di un atteggiamento consapevole, risultato di un allenamento alla gestione di questi scenari. Si tratta di generare anticorpi con una preparazione psicologica e pragmatica alla complessità propria delle emergenze.

La formazione preventiva può interessare una grande variabilità di fattispecie e puntare su modelli di apprendimento immersivi per lo sviluppo della leadership permettendo di simulare la presa di decisioni in contesti inusuali. Avvalendosi della tecnologia, la didattica immersiva permette di valorizzare le potenzialità dei mondi virtuali in ambito formativo. Durante la crisi è altamente probabile la mancanza, ad uso del team di vertice, di informazioni essenziali per comprendere il quadro reale dell’evento in corso. È vitale saper selezionare le fonti affidabili di informazione, e saper gestire quanto in atto anche in situazioni di asimmetria informativa.

La continuità del business, ove possibile, può essere demandata all’uso del digitale, smart working in testa; cercando, poi, di assicurare il più possibile i servizi di front-line con i clienti, prevedendo, in tempi non sospetti, attività di cross-training in emergenza, per far sì che ogni persona del team sia in grado di sostituire i colleghi almeno in alcune attività di base. Nel corso di un’epidemia o pandemia, ad esempio, le persone in quarantena o decedute, che sono le uniche detentrici di uno specifico know-how o competenza, rappresentano per il business, prendendo a prestito una terminologia informatica, i cosiddetti single points of failure, singoli punti di vulnerabilità, generando ingenti effetti negativi per l’azienda.

Prendendo a prestito l’eredità della precedente epidemia della Sars tra il 2002-2003, con cui potremmo, alla lunga, confrontare gli effetti dalla pandemia Coronavirus, per evitare il “contagio economico”, oltre che quello virale, alcune organizzazioni hanno raggruppato il personale in team separati e hanno alternato le squadre tra i diversi siti produttivi, con una frequenza di rotazione pari al periodo di incubazione della malattia, contenendo la minaccia delle quarantene pubbliche per l’intera funzione aziendale, nel caso in cui una sola persona della squadra sia stata esposta alla malattia.

Il contributo alla collettività di un sistema aziendale e di una supply chain durante un’emergenza, come può essere l’attuale pandemia, diventa, inoltre, parte integrante dello stesso processo di recovery aziendale. Infatti, il recupero comincia già nella stessa fase di crisi: sicuramente i retailer che nel cuore dell’emergenza dimostrano un’attenzione particolare verso i clienti e riescono ad esprimere un ruolo di caring e di responsabilità, sono anche quelli che godranno di una migliore reputazione in una successiva fase di normalizzazione. I comportamenti agiti nel cuore della crisi (ad esempio quello di retailer che hanno deciso di consegnare a titolo gratuito la spesa a casa agli over 75; oppure nella relazione con i fornitori hanno deciso di avere un atteggiamento responsabile, senza scaricare interamente su di loro gli effetti della crisi) sono quelli più esplicativi del sistema valoriale aziendale.

Chi, ad esempio, nella gestione delle persone e del punto vendita sa fornire consigli di sanitizzazione, fornendo dispositivi di protezione individuale al personale del punto vendita, e ha creato una turnazione efficace del personale, contribuisce fattivamente alle dinamiche pubbliche e sociali in atto, collaborando con il governo e con la società civile. L’integrazione di competenze organizzative, logistiche, sanitarie e antropologiche rende possibile la continuità sia del business che dei servizi a beneficio dell’intera comunità, sottolineando che agire nella pandemia presuppone grandi capacità organizzative e di adattamento al contesto.

Le crisi mettono, infine, alla prova la forza della strategia di sostenibilità delle organizzazioni, tanto che i fatti mostrano che le aziende che hanno sviluppato un piano di emergency response e previsto l’azione di un crisis team tendono a essere più preparate (anche di tanti organi governativi) a questi momenti di prova. È il caso, ad esempio, della grande catena di distribuzione americana Walmart, che durante l’uragano Katrina nel 2005, è stato il primo soggetto ad organizzarsi internamente e poi a recapitare gli aiuti nell’area colpita battendo il governo americano nella corsa all’assistenza. Il cuore del processo di recovery in situazioni di crisi è sempre da ritrovare nel fattore umano. È essenziale gestire al meglio le relazioni con gli stakeholder in tutti i contesti, oltre che stimolare l’engagement continuo dei collaboratori, dei clienti e della popolazione locale. La funzionalità di questa alchimia permette alle organizzazioni di resistere nel caos, dando prova anche di capacità di ricostruzione morale e valoriale, oltre che fisica.

Strategico, allora, è il ruolo della comunicazione (sia interna che esterna all’azienda) in tempo di crisi, debellando la visibilità negativa e le possibili fake news con accuratezza e tempismo delle informazioni, declinate in maniera corretta per ognuno dei possibili canali di comunicazione e target di pubblico.

La disintermediazione offerta dai social media non è trascurabile e bisogna fare un lavoro proattivo di community management online, essendo consapevoli che ciò fornisce le leve per amplificare la corretta informazione o disinnescare la disinformazione, soprattutto quando si genera l’onda comunicativa su un determinato tema e/o soggetto. È all’inizio, infatti, che si può più facilmente innescare un trend in un senso o in un altro. Nella moltitudine di voci e fonti, è spesso impossibile gestire una crisi in modo totalmente controllato, ma è, al contrario, possibile tentare di evitare errori grossolani.

Imparare dalle crisi superate

L’esperienza è valore. Attraverso i casi di studio che si sono succeduti negli anni, si impara a reagire in modo efficace. Mark Up ha incontrato Andrea Notarnicola, autore del libro “L’impresa Spezzata - Motivare le persone dopo l’emergenza: la forza dell’unità e della fiducia” nel quale è effettuata un’analisi dei casi e delle reazioni delle aziende, nonché le svariate correlazioni tra fisionomia delle imprese e tipologia di eventi di crisi, anche rispetto a quanto l’impresa è riuscita a costruire prima dell’evento traumatico.

Nel momento in cui, improvvisamente una crisi interrompe la continuità sociale e aziendale, quali elementi capitalizzati dalle imprese diventano utili?

Tutte le ricerche che vi sono a livello internazionale sulla gestione delle crisi aziendali dimostrano che le organizzazioni che godono di un maggiore capitale fiduciario nel momento della crisi, perché in precedenza costruito grazie ad azioni di Rsi, sono avvantaggiate. Questo avviene perché trovano attorno a sé un ambiente che le vuole salvare. Trovano anche nella comunità aziendale dei collaboratori che sono disposti a fare dei sacrifici anche economici per salvare l’azienda.

L’azienda dall’essere un’animatrice di comunità, di reti sociali, si dà un ruolo sociale che evidentemente può essere, in una fase di ripresa, altrettanto sostenibile e capace di futuro, se questi tratti sono propri del suo Dna. Lavorare prima e con costanza permette di essere resilienti.

Quali sono le caratteristiche di un’azienda resiliente?

Un’azienda resiliente è sicuramente una stakeholder company, ovvero un’azienda centrata non tanto sugli interessi degli azionisti, ma su quelli di tutti quanti i soggetti coinvolti.

Deve essere poi un’azienda con una cultura organizzativa volta ad ingaggiare le persone e a fare dell’inclusione uno dei suoi baluardi, proprio perché nella crisi c’è bisogno dell’energia di tutti. Nel retail, nella congiuntura attuale del coronavirus, la front-line, la prima linea dell’azienda, più a rischio di contagio, perché ampiamente a contatto con il pubblico, è quella del negozio e quindi il personale in loco deve sentirsi motivato (e parallelamente tutelato) nello spendersi al lavoro in queste situazioni emergenziali.

Qual è l’impatto di una corretta comunicazione esterna efficace in tempo di crisi?

Per una crisi sia di origine interna o, parimenti esterna, l’azienda deve mostrare subito la sua presenza. Deve, inoltre, prendere le redini dell’agenda pubblica. Se i cittadini sono, in questo tempo d’emergenza, preoccupati di come poter fare la spesa e come fare in modo che anche gli anziani possano non rimanere senza scorte alimentari, allora dovrà essere l’azienda proattiva nell’offrire sistemi di consegna a domicilio, ad esempio.

Deve dare una rapida evidenza di collaborazione con tutti coloro che sono impegnati nelle operazioni di soccorso.

Soprattutto sui social network bisogna metterci subito la faccia, con una comunicazione che restituisca il senso di una piena partecipazione e di una completa cittadinanza, offrendo, ognuno sulla base delle proprie disponibilità economiche e non, un contributo per la comunità.

Visto che l’Italia è un paese a vocazione export, come sarà possibile riconquistare la fiducia a livello internazionale?

Si entra, qui, nel campo della country reputation e i paesi che hanno subito traumi o attraversato periodi bui, sono paesi che poi possono avere il problema di dover ricostruire il rapporto fiduciario con gli altri partner internazionali. Il processo di riconquista della fiducia e reputation è quindi assimilabile a quello di recovery di un’azienda, senza possibili scorciatoie.

Si tratta, soprattutto, di un percorso valoriale, per cui dall’esterno sarà percepibile uno sforzo di ricostruzione e ai comportamenti adottati durante e post crisi.

Oltre a ciò, bisognerà fare in modo che la custom experience sia la più ineccepibile possibile: ad esempio, i turisti dovranno trovare un’Italia con i prezzi più bassi e con un servizio migliore rispetto al periodo precedente. Dopo la crisi bisogna cercare di dare di più.

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