Lo stato dello smart working: bene le grandi imprese, calo nelle pmi

Foto: courtesy of Pixabay
Il risparmio per il lavoratore è di circa 600 euro (il caro bollette pesa meno del caro trasporti). I dati dell'Osservatorio Smart Working PoliMi

Lo smart working è ancora un tema caldo, non solo perché i lavoratori continuano a ricercare, per non dire giustamente pretendere, una migliore work-life balance grazie anche a possibilità di questo tipo (logicamente ove applicabili), ma perché dopo il tema della sicurezza imposto dal Covid arriva ora quello del risparmio imposto dal carovita. L'inflazione attuale rende infatti gli stipendi italiani ancora meno competitivi e atti a garantire una serena quotidianità.
In un contesto di necessaria nuova cultura umana aziendale, per le imprese è imprescindibile rispondere a questo periodo di difficoltà dei collaboratori con tutte le misure possibili e, al di là di alcune iniziative come i bonus ai dipendenti, lo smart working risulta di supporto per consentire alle persone di tagliare i costi. Come conferma l'ultimo Osservatorio Polimi, infatti, questa modalità di lavoro consente il risparmio netto di circa 600 euro l'anno, perché nonostante con lo smart working aumenti il costo delle bollette, il saldo con il taglio dei trasporti risulta nettamente positivo. Anche per le aziende si tratta di un risparmio di circa 500 euro l’anno a postazione, senza menzionare i benefici ambientali per la collettività, che consentono una riduzione delle emissioni di Co2 di circa 450Kg annui a persona.

Smart working in aumento tra i grandi, in calo nelle pmi (crescerà nel 2023)

Nonostante i vantaggi sopracitati, i lavoratori da remoto nel 2022 sono circa 3,6 milioni, quasi 500mila in meno rispetto al 2021, con un calo in particolare nella pubblica amministrazione (pa) e nelle pmi, mentre si rileva una leggera ma costante crescita nelle grandi imprese, che con 1,84 milioni di lavoratori contano circa metà degli smart worker complessivi. Per il prossimo anno si prevede un lieve aumento fino a 3,63 milioni, grazie al consolidamento dei modelli di smart working nelle grandi imprese e a un’ipotesi di incremento nel settore pubblico.
La pratica è ormai presente nel 91% delle grandi imprese italiane (era l’81% nel 2021), mediamente con 9,5 giorni di lavoro da remoto al mese e progetti che quasi sempre agiscono su tutte le leve che caratterizzano questo modello. Una tendenza opposta si riscontra nelle pmi, in cui lo smart working è passato dal 53% al 48% delle realtà, in media per circa 4,5 giorni al mese. A frenare in queste realtà è la cultura organizzativa che privilegia il controllo della presenza e percepisce questa opzione come una mera soluzione di emergenza.

Telelavoro non è smart working: serve un adeguamento del modello organizzativo

La sola possibilità di lavorare da remoto, se non accompagnata da un’opportuna revisione del modello organizzativo, non dà benefici ai lavoratori in termini di benessere ed engagement. I lavoratori che manifestano i livelli più elevati di benessere sono infatti gli smart worker, tra i quali il 13% risulta pienamente ingaggiato, mentre i lavoratori remote non smart privi di flessibilità ulteriori oltre a quelle di luogo di lavoro, risultano avere minore benessere e un livello di engagement molto basso (6%), inferiore non solo ai veri smart worker, ma anche ai lavoratori on-site (12%).
D'altro canto, è necessario un ripensamento degli spazi che sappia tener conto del diverso modo di lavorare delle persone rispetto al pre-pandemia, così da favorire ove previsto quel rientro in ufficio che, nel 68% delle grandi imprese (e nel 45% delle pa) ha incontrato resistenze da parte delle persone. Il 52% delle grandi imprese, il 30 % delle pmi e il 25% della pubblica amministrazione ha già effettuato degli interventi di modifica degli ambienti o lo sta facendo in questi mesi. In prospettiva futura queste iniziative sono previste o in fase di valutazione nel 26% delle grandi imprese, nel 21% delle pa e nel 14% delle pmi.

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