Lo sviluppo etico-sostenibile come driver di differenziazione di marca

Grazie ai progetti socio-ambientali, i brand possono distinguersi dai competitor, a patto di andare oltre superficiali campagne di comunicazione

Da diversi anni un numero crescente di consumatori ha incrementato la propria sensibilità rispetto alla dimensione etica e sostenibile dei prodotti che compra. Infatti, mai come oggi i consumatori si aspettano che le marche abbiano un chiaro purpose, svolgendo un ruolo chiave nella soluzione dei problemi del pianeta e della società.
Secondo uno studio realizzato da Accenture (2019), il 62% dei consumatori pretende che i brand abbiano un approccio chiaro su tematiche di sostenibilità, trasparenza e condizioni dei dipendenti mentre un’indagine di Nielsen (2018) evidenzia come il 73% dei consumatori intervistati cambierebbe con certezza o molto probabilmente le proprie abitudini alimentari per ridurre il proprio impatto ambientale. Il Covid ha acuito queste tendenze; il 22% in più dei consumatori prende in considerazione queste tematiche rispetto al periodo pre-pandemia (IBM 2021). In realtà il trend viene da più lontano: su un periodo di 12 anni, le marche riconosciute dai consumatori per un purpose oltre il profitto sono cresciute due volte più delle altre (Kantar 2020).

Nel panorama dei beni di largo consumo le aziende produttrici hanno colto l’importanza di comunicare il loro operato in termini di pratiche di filiera, condizione dei lavoratori, impatto ambientale e supporto alle comunità. A valore, i claim che vendono di più sono quelli legati all’utilizzo sostenibile delle risorse (“meno plastica”, “CO2”, “ridotto impatto ambientale”, “compostabile”), seguiti da: agricoltura e allevamento sostenibili (“senza antibiotici”, certificati Ecocert, con indicazioni relative alla filiera o alla tracciabilità, “ingredienti 100% naturali”), responsabilità sociale e rispetto degli animali (Osservatorio Immagino 2021). Anche la Mdd sta seguendo questa tendenza, con 18 prodotti private label su 100 con green claim in etichetta.

Questo panorama evidenzia una chiara tendenza, con sempre più marche attive per la creazione di un futuro migliore, il che è senza dubbio positivo. É però opportuno sottolineare che il crescente utilizzo di claim legati a sostenibilità ed etica è spesso messo in pratica per soddisfare standard di base in maniera indifferenziata. In un contesto in cui la maggior parte delle marche promette le stesse cose (riduzione delle emissioni, packaging più sostenibile, migliori condizioni degli animali, etc.), la comunicazione delle attività etico-sostenibili si trasforma in un mero processo di omologazione, diluendo unicità e peculiarità del brand, che dovrebbe invece stare alla base della scelta d’acquisto.

É cruciale tenere a mente che al consumatore non basta più la compliance, bensì pretende un impatto concreto. Infatti, il 90% della GenZ ritiene che le marche debbano intervenire attivamente sulle questioni sociali e ambientali, e non solo conformarsi a standard (Porter Novelli/Cone 2019).
Un numero rilevante di player sta entrando nel mercato mettendo il purpose proprio al centro del modello di business. Questo è il caso di Share, start up berlinese attiva nel settore dei beni di consumo con l’obiettivo primario di rendere migliore la vita di milioni di persone afflitte quotidianamente da fame, sete e scarsità d’igiene. Ogni consumatore, attraverso una semplice scelta di acquisto, ha il potere di condividere quello che compra con chi ne ha bisogno: a ogni acquisto corrisponde una donazione dello stesso prodotto o del suo valore economico in un Paese in via di sviluppo. La start up ha iniziato commercializzando acqua imbottigliata, barrette di cereali e prodotti per l’igiene, ma dopo meno di due anni ha esteso il suo portafoglio a nuove categorie come pasta e cioccolata, ma anche al non food (vestiti e accessori).

Altro esempio è l’iniziativa francese “C’est qui le patron”, presente anche in Italia con il nome “Chi è il padrone?!”. Questa marca ha adottato un modello che rivede la logica produttore-consumatore: infatti è proprio quest’ultimo, attraverso questionari e workshop, a definire assortimento e caratteristiche dei prodotti, dalle materie prime utilizzate alle tecniche di produzione fino alla remunerazione dei produttori, chiaramente locali. Oltre a dare voce al consumatore grazie a un processo partecipativo di co-creazione, il lato etico dell’iniziativa è nel supportare le comunità locali garantendo compensi equi a tutte le parti coinvolte. Infatti, la ripartizione del margine tra distributore, marca, produttori e trasformatori, viene indicato con estrema trasparenza sul pack. L’esempio di Share e C’est qui le Patron dimostrano la possibilità di mettere al centro del proprio business model l’etica, che diviene una leva competitiva chiave.
I brand hanno di fronte a sé un’opportunità unica per differenziarsi, ma per farlo dovranno andare oltre superficiali campagne di comunicazione e corporate statement sulla sostenibilità, integrandone la vera e concreta essenza in tutti i processi aziendali e intrinsechi al prodotto stesso.

*Elia Rossi, Global Revenue Growth Strategy Manager, PepsiCo
*Elisa Martinelli, Dipartimento di Economia Marco Biagi - Università di Modena e Reggio Emilia

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