Non è necessario essere specialty, diventiamo speciali

L'editoriale della direttrice Cristina Lazzati (da Mark Up n. 258)

Siamo ottimisti, l’agroalimentare è in ripresa, lo dicono i numeri, lo dicono gli esperti ma l’agroalimentare italiano deve imparare dagli errori del passato, deve imparare a distinguere e a distinguersi, perché una tendenza, per quanto forte, può far veleggiare un intero settore verso alte vette. Ma ciò non toglie che i problemi strutturali che si aprono e apriranno saranno di non poco conto se non iniziamo a riflettere su che cosa significa agroalimentare per il nostro Paese. Andiamo per punti, partiamo dallo specialty, il made in Italy, l’artigianalità, rappresentativa, ricercata, costosa e gourmet, sicuramente è quella che rischia di più di cadere in tentazione. Tante richieste, strategie di marketing affidate a terzi, la qualità tutta da spiegare. Una qualità da difendere a tutti i costi. Poi c’è l’agroalimentare della grande azienda, quello che, al contrario, il marketing lo conosce bene, e lì arrivano le scelte dure, difficili, si fanno i conti sui margini, le materie prime e la loro reperibilità, l’essere italiani solo nella produzione o nemmeno quello e allora questa italianità dove va a finire? E soprattutto: è sempre necessaria? Può essere un freno per uno sviluppo a livello internazionale, mondiale? Probabilmente sì, azzardo, e mi/vi chiedo: perché la moda non ha avuto (o non si è posta) gli stessi problemi? Perché è rimasta italiana anche quando la sua produzione, tranne per alcune linee iperesclusive (l’alta moda per intenderci), si è spostata all’estero e anche i tessuti delle collezioni non avevano nulla di fatto in Italia? La forza dell’agroalimentare deve prendere forza dalle regole che abbiamo, tra le più stringenti in fatto di sicurezza alimentare: i nostri disciplinari non li batte nessuno! È duro fare agroalimentare in Italia. Ma chi lo fa e lo sa fare ha un’arma in più rispetto agli altri. L’Italian sounding non si può battere solo a colpi di made in Italy,
non ce la possiamo fare, siamo trasformatori, il nostro paese (bellissimo) è lì da vedere, le pianure ci sono ma sono poche, il clima cambia, la natura si prende le sue rivincite e anno dopo anno mette in ginocchio intere filiere. Non facciamoci soffocare dalla pretesa, di essere specialty, ma prendiamo il largo pensando di esser speciali, con la nostra capacità del fare (bene), prendiamo le nostre regole e facciamone un blasone di correttezza, di salubrità. Andiamo all’estero organizzati, con le idee chiare, con i prodotti giusti ma non per questo “piacioni”, adattati, ma esportiamoli con loro storia e valori. Non facciamo la gara con gli artigiani, con le produzioni solo stagionali, loro sono la nostra Alta Moda, devono esser sorretti, spinti, raccontati. Poi deve arrivare il prêt-à-porter, la democratizzazione di un gusto sano e di valore che significa Italia, che ha le garanzie italiane, che è fatto da chi sa e conosce.

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