Non-food, ancorato a soluzioni politiche

La crisi colpisce anche il mondo distributivo non-food. I consumi non alimentari retrocedono, fotografando una flessione figlia dei tagli sulla spesa delle famiglie italiane, assottigliando la loro incidenza sui consumi complessivi che da 17,5% nel 2009 scendono a 16,3% nel 2013. Calano i consumi e chiudono i punti di vendita: in ottica di razionalizzazione i retailer tirano i remi in barca portando a una contrazione del canale degli specializzati così come a una diminuzione del numero degli ipermercati. Secondo l'ultima edizione dell'Osservatorio Non Food Gs1 Italy | Indicod-Ecr, il mercato non alimentare ha raggiunto un valore complessivo nel 2013 di circa 98 miliardi di euro con una flessione pari a 3,9%. A risentire maggiormente della crisi sono i comparti dell'abbigliamento e calzature, tessile, cancelleria, articoli per lo sport e giocattoli, mentre, pur con un saldo negativo, mobili e arredamento, bricolage ed edutainment registrano un calo inferiore rispetto all'anno scorso.

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Opinioni frammentate Occorre chiedersi al più presto cosa fare per risanare la voragine che in sei anni ha sottratto forze al settore. Se il futuro si giocherà sull'interazione tra digitale e fisico, il presente resta ancorato a soluzioni di tipo politico. L'introduzione della liberalizzazione delle aperture del commercio voluta due anni fa dal decreto Salva-Italia emanato dal Governo Monti ne è un esempio. Il provvedimento caricava in sé lo scopo di rilanciare l'occupazione e i consumi, sia food sia non-food, rendendo possibile l'apertura degli esercizi commerciali 24 ore al giorno tutti i giorni dell'anno, festività incluse. Focus sulla deregulation, dunque, o almeno questo era il diktat lanciato nel 2011. Oggi, sembra sia stata inserita la retromarcia tanto che al Parlamento è stato presentato dal senatore Angelo Senaldi (Pd) un disegno di legge che, se approvato, modificherebbe l'impianto voluto dal decreto sulla liberalizzazione: il dl prevede 12 chiusure obbligatorie in corrispondenza di festività nazionali. Un passo indietro secondo Confimprese che, nelle parole del presidente Mario Resca, afferma che si tratta di un'operazione che non stimola i consumi e non avvantaggia l'economia del Paese. Francesco Montuolo, vicepresidente di Confimprese, commenta “Riteniamo che sia un provvedimento che senza creare alcun vantaggio, neanche al commercio tradizionale, rischia di ridurre la capacità competitiva del retail fisico rispetto al digitale, di creare minor gettito per l'erario e danni dal punto di vista occupazionale”. A favore della liberalizzazione, Federdistribuzione. Le parole del presidente Giovanni Cobolli Gigli non lasciano dubbi: “La liberalizzazione degli orari ha consentito di distribuire più salari, di creare nuova occupazione e di sostenere quella esistente minacciata dagli effetti sulle imprese della caduta degli acquisti, di sostenere i consumi che sarebbero diminuiti in misura ancora maggiore senza le nuove giornate di apertura. Se il quadro delle aperture domenicali e festive dovesse mutare con l'introduzione di alcune giornate di chiusura obbligatoria ci sarebbero inevitabili effetti sui livelli occupazionali”. Non sembra avere lo stesso parere Susanna Camusso, segretario generale di Cgil, che, durante un convegno di Regione Marche sugli interventi di liberalizzazione del commercio, ha dichiarato che “l'occupazione è diminuita negli ultimi due anni e le aperture domenicali non servono a riequilibrare la crisi. È inutile puntare a estendere le licenze di fronte a consumi crollati”. Si tratta, in ogni caso, di un tema non solo economico ma che ha anche riflessi di natura sociale: “Il valore del pluralismo distributivo non può essere derubricato a fatto marginale perché questo modello risponde alle mutate esigenze dei consumatori e corrisponde alla orografica del nostro Paese”. Ad affermarlo è Lino Enrico Stoppani, vicepresidente di Confcommercio e responsabile politiche del commercio ritenendo che il testo presentato dalla Commissione attività produttive della Camera coglie l'obiettivo di avere deroghe certe dentro leggi chiare. Mauro Bussoni, segretario generale di Confesercenti, dal suo osservatorio rileva che la liberalizzazione del commercio non ha raggiunto gli obiettivi prefissati registrando, tra l'altro, un saldo negativo di oltre 34.000 negozi tra aperture e chiusure d'imprese del commercio al dettaglio non-food nei primi due anni di liberalizzazioni. Il leitmotiv delle liberalizzazioni si manifesta, dunque, come un tema dove strutture commerciali tradizionali e catene distributive medio-grandi non riescono a trovare un equilibrio. Una difficile convivenza che mette a dura prova anche il consumatore che, nella bagarre, potrebbe non uscirne incolume. Occorre trovare dei punti di confronto tra gli attori della filiera, un fronte comune nell'interesse di tutti, per recuperare quei tanto agognati consumi che negli ultimi anni sono decresciuti. Al bando la frammentazione, anche ideologica, per dare vita a un obiettivo comune.

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