Oltre green e socialwashing: l’era del “Consumattivista”

Per il business è finito il tempo di una comunicazione basata su uno “storytelling-etico-responsabile” solo di facciata, a favore di un agire pragmatico, sostenibile e trasparente. Il filone del Brand Activism se ne fa portavoce

Sostenibilità è sicuramente una delle “buzzword”, delle parole in voga e di moda, degli ultimi anni: un concetto tanto ampio e profondo, quanto abusato e svuotato del suo reale significato, alla spasmodica ricerca di una “green reputation”, accertato sinonimo di vantaggio competitivo. Certo, nessuno è così ingenuo da decantare un’apparente svolta etica del capitalismo, che tuttavia sta rincorrendo quello che è ben più di uno dei tanti trend che si vedono sul mercato: la sostenibilità è indissolubilmente legata alla crisi climatica, vale a dire la battaglia delle nuove generazioni. I ragazzi della “generazione Greta”, facendoci rientrare – se non per precisa età anagrafica – pure buona parte dei Millennials, hanno come faro una “giustizia climatica” ben consapevole che la mancata e tempestiva azione verso la mitigazione dei cambiamenti climatici fungerà da moltiplicatore di minacce da cui – nel lungo termine – nessuna parte del mondo potrà dirsi estranea. Quindi, nella contemporaneità quotidiana del business, il concetto di sostenibilità risulta essere sì usato, ma comunicato e snaturato, quasi a ridurlo ad un rumore di fondo nel mercato globale, che fa intendere la “trasformazione sostenibile” come un insieme di elementi di marketing e comunicazione. La complessità di questo argomento trova una lucida declinazione e analisi nel libro “Consumi o scegli? – Il potere della sostenibilità per cambiare l’economia” (Altra Economia, 2021) di Alessandro Franceschini, presidente di Altromercato, che specifica che “se il tema viene infatti affrontato dagli uffici marketing delle aziende in chiave di puro racconto per convincere l’interlocutore della bontà della propria azione, si entra in un meccanismo a spirale discendente nel quale la narrazione diventa più importante dell’azione, lo storytelling più centrale dello storydoing”. Si tratta di una separazione e contraddizione tra il dire e il fare, con quest’ultimo elemento che viene omesso, a fronte dei famigerati green e socialwashing che fanno riempire bocche e media (digitali ed analogici) di proclami senza riscontro nella realtà. Oltre al fatto che nella società di internet, il rischio di essere scoperti su posizioni più o meno intenzionalmente ambigue e fallaci è facile e all’ordine del giorno, con delle conseguenze irreparabili in termini di trust, fiducia, l’ingrediente per eccellenza più prezioso, che una vota perso è pressoché o comunque difficilmente recuperabile.

In questo contesto, allora, un modello di business che va invece nella direzione di esprimere un’impostazione che va oltre al mero profitto senza approfittarsi della patina glamour e imbellettante del marketing, rispondendo alle nuove istanze dei consumatori sempre più informati e eco attivi/consapevoli, è quello del Brand Activism, ampiamente esplorato da Philip Kotler e Christian Sarkar nelle loro pubblicazioni. Di fatto, il Brand Activism prende le mosse dalla tendenza dei consumatori a premiare chi si impegna per il bene comune oltre che per i propri obiettivi aziendali. L’azienda, infatti, da parte sua, promuovere, impedisce o influenza riforme o stati di inerzia sociali, politici, economici e/o ambientali, facendosi promotrice attiva (in maniera progressiva o regressiva) di una causa. Pensando al Brand Activism progressista come un’evoluzione della Corporate Social Responsability (CSR), ovvero l’impegno volontario assunto nel rispetto di ambiente, società ed economia, da tale modello dovrebbe discenderne un particolare approccio agli aspetti più sensibili ed influenzabili in tal senso, riconducibili ai già citati marketing e comunicazione. Se si pensa, ad esempio, alla pubblicità, è interessante citare quanto afferma Paolo Iabichino, scrittore pubblicitario, direttore creativo, fondatore dell’Osservatorio Civic Brands con Ipsos Italia e Maestro della Scuola Holden, per cui “la pubblicità è l’ultimo anello di una catena di responsabilità che l’azienda deve favorire dal proprio interno, agendo sui propri modelli di business, agendo prima di tutto sulla propria compagine in maniera etica e sostenibile, quindi [..] prima di tutto su persone e filiere. […]Quello a cui, invece, molto spesso assistiamo è un’ansia di raccontare , per cui si chiama il bravo creativo per confezionare un messaggio particolarmente luminescente dal punto di vista della “seduzione sostenibile”, senza aver fatto al proprio interno tutti i passaggi per poter reggere quel tipo di racconto”.

In aggiunta a quanto fin ora descritto, l’aspetto forse più considerevole e già accennato precedentemente, è il nuovo ruolo del consumatore 4.0, informato, spesso impegnato su determinate tematiche e, per dirla con un’espressione coniata dall’economista Leonardo Becchetti, con il potere di “votare con il portafoglio” tramite le proprie scelte d’acquisto. Il consumatore è, quindi, un soggetto consapevole, è un activist, che in “Consumi o scegli? – Il potere della sostenibilità per cambiare l’economia” di Franceschini viene definito, con una crasi tra consumatore e attivista, “Consumattivista”: “Il cittadino, per uscire dall’ambiguità e da una possibile passività digitale, può sentire con maggiore forza l’esigenza di spendersi direttamente con il proprio impegno…per incidere sulle storture del mercato, creando una figura che si può definire consumattivista: un consumatore che scende nelle piazze fisiche e virtuali, che agisce nel concreto per cercare un cambiamento, che ci mette la faccia (e non solo sulla propria foto profilo)”.

Che sia fisico o digitale il contesto di riferimento per l’instaurarsi del famoso customer journey, queste riflessioni parlano in maniera diretta ad un comparto come il retail che, nelle oscillazioni di predominanza alternata tra “digital only” che aveva fatto parlare alcuni studiosi oltreoceano della cosiddetta “retail apocalypse” in relazione alla fine del brick and mortar, e il ritorno in auge dell’importanza dei negozi fisici (con non ultimo Amazon ad investire in store di 3mila metri quadrati di superficie), deve conoscere queste istanze e questo nuovo profilo di consumatore. Il coacervo su cui lavorare sono le diverse possibili declinazioni legate all’economia delle relazioni, all’interno delle quali rispondere alle esigenze di queste nuove forme di attivismo.

Concludendo, nel già citato libro di  Alessandro Franceschini viene riportata una citazione di Philip Kotler e Christian Sarkar tratta da “Brand activism, dal purpose all’azione” (Hoepli, 2020) in cui si esplicita come “oggi i consumatori, in particolare quelli orientati all’evoluzione come i Millennials e la Generazione Z, chiedano alle imprese di essere agenti del cambiamento nel mondo, di cercare di risolvere i problemi più urgenti che affliggono la società, come disuguaglianze di reddito, la corruzione e i cambiamenti climatici. Non è più possibile limitarsi a fare profitti e offrire sacrifici sull’altare del valore per gli azionisti. Un problema dopo l’altro, le imprese devono stare dalla parte della società”.

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