Quale food made in Italy?

Copertina – Solo la materia prima è il discrimine o vale la anche la preparazione? La trasparenza è la migliore soluzione

La questione del Made in Italy nell'alimentare si trascina ormai da molti anni ma è ben lontana da trovare una conclusione condivisa. Con l'Expo ormai alle porte, il rischio è non riuscire a dare al nostro food la massima energia per affermarsi maggiormente nel mondo. Le criticità sono molteplici e complesse.

Un paese che trasforma L'Italia è il secondo paese manifatturiero d'Europa. Ha scarsa cultura del servizio ed è da sempre proiettato sull'industria. Quella alimentare è omogena a questo tipo di declinazione e grazie a ciò ha saputo conquistare posizioni di leadership anche in settori merceologici estranei alla nostra produzione di materie prime. L'esempio ricorrente è quello del caffè, importato come materia prima e trasformato. Il caffè italiano per definizione non esiste: non vi sono piantagioni nel nostro territorio ma i nostri brand, di fatto, hanno inventato la tradizione e il valore dell'espresso nel mondo rendendo questa bevanda sinonimo di made in Italy. Analogo discorso si può fare con il cioccolato proveniente dal cacao inesistente in termini di coltivazione sul nostro territorio. Queste considerazioni determinano la prima criticità: se nell'alimentare è considerato made in Italy solo ciò che ha ingredienti coltivati in Italia, si espropriano di questa dignità alcuni prodotti consolidati e riconosciuti. Ma tutto ciò dovrebbe essere inquadrato nell'eccezionalità.

Una filiera squilibrata È possibile identificare come Made in Italy una pasta prodotta con grano canadese oppure ucraino? Sicuramente no anche perché l'Italia è un importante produttore di grano duro. Tuttavia alcune linee di pensiero indicano nel processo di trasformazione l'atto in cui si insuffla il made in Italy nel prodotto. Tesi rafforzata anche dalla considerazione che la produzione di materie prime sul nostro territorio è, per diverse categorie merceologiche, insufficiente. Tuttavia la tesi ha delle debolezze non solo concettuali in quanto ogni prodotto è diverso e occorre svolgere il tema puntualmente. Inrealtà spesso si registrata la tendenza ad importare materia prima dall'estero semplicemente per pagarla meno effettuando un vero e proprio dumping sul nostro agroalimentare. Questo è un suicidio economico.
Resta di fondo un dato: solo il 3% di tutto il giro di affari delle filiera agroalimentare rimane agli attori della filiera come margine. Nel prossimo numero di Mark Up vedremo i motivi.

Il ruolo della politica  Le filiere e i mercati non si regolano da soli. Occorre una politica sistemica forte che implementi un piano strategico di lungo respiro fuori dalla solita demagogia. Tentiamo una sintesi estrema dei temi. Vi è nel valore anche nel saper preparare i prodotti. La ricetta, i processi e la tradizione italiana contano. Occorre un marketing adeguato e la trasparenza in etichetta: il food italiano deve avere coraggio, verrà premiato. L'agricoltura italiana non può essere intensiva e le tipologie di coltivazioni vanno protette da contaminazioni. Occorre riorganizzare il territorio, decidere una politica di zero consumo del suolo e impedire l'abbandono delle coltivazioni. I piccoli coltivatori devono poter continuare l'attività. Tutto questo va a braccetto con la cura idrogeologica del territorio.
L'illegalità è il primo nemico anche nell'agroalimentare. I dati più aggiornati sono eloquenti: secondo il rapporto 2013 Agromafie Coldiretti-Eurispes il fatturato illecito si aggira attorno ai 14 miliardi di euro ed è cresciuto del 12% nel biennio 2012-13; ben 5.000 tra bar, pizzerie e ristoranti sono gestiti dalla criminalità organizzata. Poi ci sono i costi della filiera insostenibili per fattori che sono estranei alla filiera stessa, energia in primis. Infine l'armonizzazione con le politiche comunitarie. E tutto questo è un affare della politica. Sembra poco?

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