Ristorazione, Italia terzo mercato europeo

Secondo il Rapporto Fipe 2019 la spesa degli italiani tra bar e ristoranti è salita nel 2019 a 86 miliardi di euro. Ci superano solo Gran Bretagna e Spagna

Siamo il terzo mercato europeo dopo Gran Bretagna e Spagna. La ristorazione apre, inventa nuove formule, crea nuove imprese, e ha ricadute positive sull'intera economia italiana e in particolare sulla filiera agroalimentare. Ogni anno la ristorazione acquista prodotti alimentari per un valore totale di 20 miliardi di euro, creando un valore aggiunto superiore ai 46 miliardi, il 34% del valore complessivo dell'intera filiera agro alimentare. Sono alcuni dei dati da evidenziare nel Rapporto Fipe 2019 presentato a Roma questa mattina da Lino Enrico Stoppani, presidente di Fipe, la Federazione italiana dei pubblici esercizi. "Il mondo della ristorazione è un grande asset della nostra economia e un patrimonio, anche culturale, del Paese -commenta Stoppani-. Continuiamo a far crescere l'occupazione e contribuiamo alla tenuta dei consumi alimentari: negli ultimi 10 anni, nonostante la crisi, gli italiani hanno speso sempre di più per mangiare fuori casa, riducendo al contrario la spesa in casa".

In dieci anni, tra il 2008 e il 2018, i consumi di ristorazione (incremento reale) sono aumentati di quasi il 6% (+5,7%), pari a 4,9 miliardi di euro, mentre quelli alimentari in casa sono scesi addirittura di 8,6 miliardi di euro con dinamica peggiorativa nel trend al 2019 (-8,9 miliardi di euro). Ogni giorno 5 milioni di persone (il 10,8% degli italiani) fanno colazione in uno dei 148.000 bar della penisola. Altrettanti milioni pranzano ogni giorno fuori casa; e poco meno di 10 milioni di italiani (18,5%) cenano al ristorante almeno due volte a settimana. Nel 2018 la spesa tra bar e ristoranti è ammontata a 84,3 miliardi di euro, +1,7% in termini reali rispetto all'anno precedente. Nel 2019 il settore ha fatto anche meglio, arrivando a un consumo pari a 86 miliardi.

Un marchio doc contro l'italian sounding

A proposito di filiera italiana (e ripetiamo, la ristorazione acquista ogni anno prodotti alimentari per 20 miliardi di euro), quello dell'Italian sounding è un problema di proporzioni crescenti: non sembrano diminuire i casi di plagio all'estero dei marchi dei principali ristoranti e delle pasticcerie italiane più note. Per questo è stato creato il marchio di riconoscimento ospitalità italiana, attraverso il quale il nostro Paese certifica che i ristoranti (con questo marchio) utilizzano prodotti italiani e si ispirano ad autentiche ricette nostrane con forte accento sulle cucine del territorio. Negli Usa si conta il maggior numero di ristoranti certificati: la prima città è New York. In totale, sugli oltre 60.000 ristoranti 'all'italiana' presenti nel mondo, solo 2.200 hanno ottenuto questo riconoscimento.

Tracciabilità e zero sprechi

La tradizione è il fattore più attrattivo che motiva la scelta di un'insegna e di un locale. Il 50% degli intervistati da Fipe, cerca e trova nei locali che frequenta un’ampia offerta di prodotti del territorio, preparati con ricette classiche. Il 68,1% dei clienti quando sceglie un ristorante si informa per prima cosa sulla provenienza geografica dei prodotti; il 58,5% sui valori nutrizionali dei piatti e il 54,5% sull'origine e la storia di una ricetta.

L'altro fattore che incide sulla scelta è l'atteggiamento dei ristoratori e dei ristoranti verso le tematiche ambientali. Per 7 consumatori su dieci i ristoranti dovrebbero lavorare in modo sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale: per esempio, attuare politiche contro lo spreco alimentare (lo sostiene il 37,7% degli avventori) dotandosi di doggy bag alias "rimpiattini"; o utilizzare materie prime provenienti da allevamenti sostenibili (per il 36,7%); o limitare l’uso della plastica (33,3%). Solo meno di un italiano su tre rimane totalmente indifferente di fronte a questo tipo di politiche sostenibili.

Ristorazione sempre più donna, giovane e straniera

Oltre all’impatto sulla filiera agroalimentare e sull'ambiente, c’è anche, e soprattutto, quello sull’occupazione. Secondo l'ultimo censimento disponibile, sono 336.000 le imprese della ristorazione attualmente attive: di queste, 112.441 sono gestite da donne che scelgono in un caso su due di aprire un ristorante.

Tutt'altro che marginale l'impegno imprenditoriale dei giovani (56.606 imprese gestite da under 35) e degli stranieri (45.000 imprese).

Nel mondo della ristorazione l'occupazione rimane stabile (1,2 milioni di dipendenti di cui il 52% donne), ma nel lungo periodo evidenzia una notevole impennata, soprattutto rispetto agli altri settori dell'economia nazionale. Negli ultimi 10 anni i posti di lavoro, misurati in unità di lavoro standard, in bar e ristoranti sono aumentati del 20%, mentre l'occupazione totale è scesa (-3,4%).

Ancora elevato il turnover imprenditoriale

Fra le criticità del mercato spicca l’elevato tasso di mortalità imprenditoriale: il 25% dei ristoranti chiude dopo un anno; un locale su due abbassa la saracinesca dopo 3 anni, mentre dopo 5 anni le chiusure interessano il 57% di bar e ristoranti. Dati che vanno spesso a braccetto di una bassa produttività: il valore aggiunto per unità di lavoro è pari a 38.700 euro, un valore del 41% inferiore al dato complessivo dell’intera economia. Nell'ultimo decennio il valore aggiunto per ora lavorata è sceso di 9 punti percentuali.

"Il nostro non è un settore dove si vive di rendita -commenta Stoppani- come dimostra l'altissimo turnover imprenditoriale. I preoccupanti tassi di mortalità delle imprese confermano che ascoltare il mercato e innovare sono due processi fondamentali per il successo. Conforta vedere una forte attenzione dei nostri imprenditori verso alcune nuove tendenze: sono in prima linea nella lotta allo spreco alimentare e molto sensibili sia al tema della sostenibilità ambientale che a quello della valorizzazione dei prodotti del territorio. E ripeto che come settore acquistiamo ogni anno materie prime alimentari sia dall'industria che dall'agricoltura per un valore complessivo di 20 miliardi di euro".

Il problema dell'abusivismo

Altri due tasti dolenti toccati da Fipe nell'ampia gamma di temi che contrassegna il mercato della ristorazione riguardano l'abusivismo commerciale e la concorrenza sleale. Nei centri storici si è impennato nel corso degli ultimi 10 anni il numero di paninoteche, kebab e (finti) take away di ogni genere (+54,7%), mentre è diminuito il numero di bar (-0,5%). Il pubblico esercizio deve fare i conti con una concorrenza ormai fuori controllo. Crescono soprattutto le attività prive di spazi, personale e servizi, soprattutto nei centri storici delle città più grandi.

"Questi fenomeni dipendono da molti fattori –spiega Stoppani - dai costi di locazione diventati insostenibili, al servizio che richiede personale (e il personale costa), fino agli oneri di gestione, a cominciare dalla Tari, che sono sempre più pesanti. La scorciatoia è fatta da attività senza servizio, senza spazi e con personale ridotto all'osso, favorita da politiche poco lungimiranti delle amministrazioni locali che consentono a tutti di fare tutto senza il rispetto del principio ‘stesso mercato, stesse regole’ che per noi è alla base di una sana concorrenza. La disparità di condizioni non genera solo concorrenza sleale, ma impoverisce il mercato stesso, la sicurezza dei consumatori e la qualità delle nostre città".

 

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