Next gen: Dario Vignali, imprenditore. Spazio ai personal brand

Il personal branding sarà una tendenza da inglobare e interpretare per il business, come ci spiega Dario Vignali founder di Marketers

Oggi e domani bisognerà “studiare quello che gli altri non studiano per vedere quello che altri non vedono: la formazione istituzionale non basterà più”. Questa una delle frasi che Dario Vignali, classe 1991, ci snocciola a inizio intervista. Parliamo di un giovane il cui sguardo al futuro e alla prossima tendenza è insito nel dna, tanto che a 15 anni già si occupava di marketing digitale, quando “ancora non si conosceva il nome della materia”. A vent’anni aveva un blog sul tema che superava i 2 milioni di visitatori e collaborava con marchi come L’Oréal oltre che con grandi imprenditori. Nominato da Forbes nel 2018 tra gli under30 più influenti in ambito business, è fondatore e co-founder di Marketers, Yoga Academy, Onlab e tante altre aziende digitali. Marketers, in particolare, oggi non è più solo una community ma una holding company che investe e crea altre imprese. La sua attività core è la crescita sul web attraverso la costruzione di personal brand, capaci di svilupparsi poi in veri e propri business di cui Marketers diventa partner.

Tu aiuti imprenditori, professionisti e celebrity a crescere sul web: quale sarà il legame tra questi tre fronti?
Gli imprenditori dovranno diventare più celebrity e viceversa. I primi, in particolare, dovranno imparare a comunicare come se fossero tali e a costruirsi un pubblico, stare davanti alle quinte del marchio e dell’azienda, trasmettendone al mercato il posizionamento e i valori. I giovani, infatti, acquisteranno sempre di più quello che sta dietro al prodotto e chi lo rappresenta direttamente deve saperlo fare in modo autentico e con volto umano: se oggi si comprano azioni di Tesla è perché c’è Elon Musk. Dai personal brand le aziende devono imparare il marketing conversazionale. Non a caso oggi sempre più realtà ci chiedono di fare formazione ai dipendenti per renderli opinion leader in grado di comunicare l’azienda oltre l’orario di lavoro e condividerne realmente il progetto con passione.

Gli influencer, invece, che direzione seguiranno?
Anche gli influencer, come dicevo, dovranno diventare più imprenditori. Io dico sempre che, come nei videogiochi, loro hanno una “barra della vita” che coincide con la loro autenticità e che si accorcia man mano che pubblicizzano prodotti e aziende in modo incoerente: non puoi il giorno prima sponsorizzare un tagliaerba e il giorno dopo un hotel. Chi segue questa direzione perderà via via potere promozionale. Fare più gli imprenditori per loro significherà invece ragionare in termini di target fidelizzato al quale rispondere con prodotti adeguati e che non saranno più quelli di un’altra azienda, ma dell’influencer stesso diventato brand. Una modalità d’azione che rinsalda il legame con il proprio pubblico: acquistando qualcosa, di base, ci si sente ulteriormente coinvolti nel rapporto.

E le collaborazioni con le aziende, dunque, che fine faranno?
Le collaborazioni efficaci tra influencer e aziende terze continueranno ad esistere laddove non in conflitto con i rispettivi business, ma conformi ai rispettivi valori e stile, un po’ come con la capsule di Chiara Ferragni con Nespresso. Il problema nasce quando l’influencer che fa travel poi fa anche le foto con le mozzarelle. Le aziende possono fare ricorso a chi ha già investito sul proprio personal brand inglobandolo all’interno delle proprie strategie e formandolo. Peloton, ad esempio, è un’azienda di cyclette e tapis roulant connessi a Internet che consentono agli abbonati mensili di partecipare a distanza alle lezioni tramite streaming media. Durante il Covid è esplosa ed è riuscita a diventare un brand di culto creando una community di fedelissimi ambasciatori. Ci è riuscita creando e formando un pool di personal trainer che seguono da remoto tutti coloro che vogliono allenarsi e che erano persone già celebri e di carisma.

Ma il personal branding ha senso che lo facciano tutti?
Oggigiorno io consiglierei a chiunque di mettersi a gestire il proprio personal brand, che è l’insieme delle percezioni che gli altri hanno di noi sul mercato. Metaforicamente: è quello che dice di noi chi ci conosce quando non siamo nella stanza (il nostro Ceo, i dipendenti, i clienti): possiamo decidere di gestire questo percepito e chiederci come migliorarlo, oppure lasciarlo al caso. Un discorso che, tra l’altro, vale ancora di più post Covid: prima della pandemia, chi aveva una professione poteva essere “geograficamente protetto” e aveva il suo bacino territoriale di riferimento. Ora le persone hanno capito che online si può fare e trovare tutto, quindi non cercano più necessariamente la prossimità fisica, ma guardano e si informano in rete, dove ovviamente chi ha lavorato sul personal branding emerge come riferimento primario.

I contenuti, i linguaggi e i format quindi quali dovranno essere?
Dipende certamente dal proprio target, un avvocato che parla ad avvocati può usare il linguaggio formale della “tribù” cui si rivolge. Anche per quanto riguarda i format e i canali bisogna pensare ai principi guida e non a regole rigide: ovvio che ci sarà l’anno di un social in ascesa e l’anno di un altro, ma il punto è dove stanno i miei clienti, dove sono più ricettivi ai miei contenuti e quali, tra questi ultimi, rispecchiano di più le mie abilità. Ci sono due tipologie di piattaforme: le “content discovery”, stile TikTok o Snapchat, dove il pubblico è più in modalità svago e dove si cercano nuovi stimoli ma non in modalità informativa. Qui bisogna puntare su cose brevi, pillole, intrattenimento. Se invece pensiamo alle piattaforme di “content consumption”, come YouTube o Spotify, parliamo di ambienti focalizzati dove le persone sono attente e magari si ascolta un podcast fino a mezz’ora mentre si è in coda. Io credo che i brand dovrebbero sempre avere almeno una piattaforma per ognuna di queste tipologie.

Da Mark Up n. 305, dicembre 2021-gennaio 2022

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