La schiavitù: pensavamo fosse il passato e la riscopriamo nelle catene del valore

Un problema etico e reputazionale che diventa materia di studio anche per le business school nei corsi di Business and Human Rights

Il 7 e 8 settembre, il Convegno SIMA-Sinergie si concentrerà sulle grandi sfide della sostenibilità. Uno dei temi in questo contesto è quello della schiavitù moderna, a cui sarà dedicato il Keynote speech di Andrew Crane, dell’Università di Bath, tra i massimi esperti internazionali in materia. Ma cosa è la schiavitù moderna e perché dovrebbe interessare la comunità scientifica di management?

Si tratta di un fenomeno più vicino a noi di quanto non si pensi. Anche in Italia, le cronache sul caporalato e lo sfruttamento dei migranti nei campi di raccolta sono un esempio delle forme di schiavitù dei nostri tempi. La schiavitù moderna si declina in molti modi: dal traffico di esseri umani, allo sfruttamento sessuale, al lavoro forzato, inclusa la forma di sfruttamento del lavoro per debiti (bonded labor). Secondo le stime dell’International Labour Organization (ILO) e della Walk Free Foundation, sono circa 40 milioni le persone al mondo ridotte in schiavitù e di queste circa 16 milioni sono soggette a lavoro forzato nel settore privato. Questo fenomeno è molto diffuso in Asia ed in Africa, ma caratterizza le catene del valore anche in Europa. In altre parole, è possibile che i prodotti che acquistiamo ogni giorno nei centri commerciali o nei negozi siano in parte – anche minima – realizzati attraverso lavoro forzato. Le forme di schiavitù si manifestano attraverso violenza fisica, privazione delle libertà individuale, condizioni di lavoro disumane, servitù per debito e lavoro minorile forzato, violazione del diritto alla salute.

Oltre che un grave problema etico, quello della schiavitù moderna è anche un problema reputazionale, soprattutto per le grandi imprese multinazionali che sono continuamente sottoposte allo scrutinio delle organizzazioni che operano come watchdog, monitorano le catene del valore, e che possono montare vere e proprie campagne di discredito per le aziende le cui operazioni sono associate a fenomeni di schiavitù.
I Principi Guida su Impresa e Diritti Umani delle Nazioni Unite (UN Guiding Principles, UNGP), lanciati nel 2011 a livello globale, e recepiti dal Governo Italiano nel 2016, sono una delle prime iniziative di cosiddetta soft law volte a sensibilizzare il mondo del business sul rispetto dei diritti umani, così come definiti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e prevedono, tra le altre cose, il principio di responsabilità per le imprese, ovvero chiedono a queste ultime di farsi responsabili del rispetto dei diritti umani nelle loro operazioni di business sia nel loro paese di origine ma, soprattutto, nei paesi terzi dove i sistemi giuridici possono essere molto al di sotto degli standard internazionali. Gli UNGP sono stati prontamente recepiti dall’OCSE nelle Linee Guida per le Multinazionali, e sono poi diventati fonte di ispirazione per vere e proprie normative nazionali, alcune delle quali proprio specifiche sulla schiavitù moderna. Dal 2015, il Regno Unito si è dotato di una legge che chiede alle imprese trasparenza e accountability in materia di schiavitù moderna (UK Modern Slavery Act), mentre l’Olanda ha varato una legge che sarà vincolante dal 2022 che obbliga le imprese a realizzare una due diligence per combattere il lavoro minorile nelle catene del valore. Non sappiamo ancora se queste novità normative saranno incisive nel ridurre il fenomeno della schiavitù moderna (la ricerca su questo fronte è ancora molto limitata), ma sappiamo che le imprese possono impegnarsi su base volontaria per evitare questo odioso crimine.

Secondo gli esperti di KnowtheChain, le aree di intervento sono tre.

- La prima riguarda quello che io definisco il Talk ovvero gli impegni presi “a parole”, ivi incluse le dichiarazioni di adesione a protocolli internazionali, la stesura di codici di condotta, e tutto ciò che riguarda la retorica dell’impegno a combattere questo fenomeno.

- La seconda area di intervento è l’attività di Pressure, ovvero le azioni messe in campo per monitorare la catena del valore, ivi inclusi gli audit a sorpresa dei fornitori, e l’identificazione di sanzioni nei confronti degli stessi nei casi di non-compliance.

- Infine ci sono le attività di Justice, ovvero di accesso alla giustizia per le vittime. Si tratta di attività promosse e finanziate dalle imprese stesse e vanno da iniziative relativamente semplici come l’istituzione di hotlines che consentano alle vittime di abusi di denuciarli in forma autonoma e protetta, ad azioni più concrete di individuazione di vere e proprie forme di compensazione extra-giudiziale del danno ricevuto, così come l’identificazione di forme di consultazione e dialogo con gli stakeholder rilevanti nel dirimere i conflitti legati alla schiavitù.

La crescente attenzione su questi temi è un bel segnale. Tuttavia, siamo ancora molto lontani dalla meta. Anche solo prendendo in considerazione le imprese più sensibili rispetto al tema della schiavitù moderna, come Hewlett Packard o Adidas, i dati a nostra disposizione ci suggeriscono che esse si sono impegnate sinora molto sul Talk, meno sul fronte Pressure, e pochissimo sul fronte Justice, che invece è quello su cui è fondamentale agire perché è focalizzato sulle vittime. Rimane pertanto un grande lavoro da fare sia a livello di policy high level, ma soprattutto dal basso, partendo proprio dalle aule universitarie. Cresce l’importanza di formare manager ed imprenditori del futuro, preparati sul tema della schiavitù moderna e, più in generale, in materia di diritti umani. Alcune business school hanno iniziato a inserire corsi di “Business and Human Rights” nella loro offerta formativa, e anche a Pisa c’è questa sensibilità: il Master in Human Rights and Conflict Management della Scuola Superiore Sant’Anna ha un modulo su Business e Human Rights, e questi temi sono materia di studio anche nel Master of Science in Economics (S. S. Sant’Anna-Università di Pisa) e nel corso di International Management and Marketing del Corso di Laurea Triennale in Inglese di Management, sempre all’Università di Pisa. La speranza è che le future e i futuri manager abbiano maggiore consapevolezza e capacità di gestire questi temi, oramai non più trascurabili.

(*)
Elisa Giuliani professoressa ordinaria di Economia e Gestione delle Imprese, Università di Pisa

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