Se l’Italia perde il Made in Italy

Il fenomeno delle acquisizioni dall'estero sta assumendo proporzioni critiche. A fronte di potenziali vantaggi di crescita a livello di singola impresa, il rischio per la nostra industria è la perdita progressiva di know how imprenditoriale e manageriale.

L’ondata di acquisizioni d’imprese appartenenti a tutti i settori del Made in Italy, tra cui le più recenti di maggiore risonanza, Indesit e Poltrona Frau passate alle americane Whirlpool e Howarth, e Krizia finita in mani cinesi, fa pensare che oggi il Made in Italy stia vivendo un paradosso.

Da un lato, le imprese italiane dimostrano, a prescindere dalla dimensione, di saper affrontare il nuovo scenario globale, come testimoniano le crescenti quote di fatturato export, le forme d’internazionalizzazione adottate, la presenza in una molteplicità di paesi molto spesso lontani, viste le accattivanti opportunità che questi offrono e che difficilmente possono essere snobbate. Dall’altro lato, però, man mano che si affermano sui mercati globali, proprio le nostre migliori imprese diventano oggetto di attenzione da parte di multinazionali estere alle cui lusinghe sembrano cedere senza grandi remore. La KPMG ha registrato dal 2009 ad oggi ben 363 acquisizioni da parte di grandi gruppi stranieri per complessivi 47 mld € (tra cui Bulgari, Parmalat, Loro Piana, Coin, Pernigotti, Ducati, Valentino).

Benché gli irriducibili ottimisti vedano in tali dati la prova del perdurante fascino del Made in Italy, la realtà è alquanto diversa. Non a caso si va ampliando, e a ragion veduta, la schiera di coloro che parlano di un “paese in svendita” (Eurispes, 2013) a voler sottolineare che l’afflusso di capitali esteri nel nostro paese non è avvenuto secondo le normali regole di mercato e le aziende si sono dovute piegare ad una vendita “sottocosto” rispetto al loro reale valore. Da un lato, infatti, per competere sui mercati globali è necessaria un’intensità di capitale che è fuori dal perimetro di governo e di controllo di una media azienda familiare, dall’altro queste imprese sono sempre più schiacciate da una serie di difficoltà interne (burocrazia, tassazione, accesso al credito, mancanza di tutele) che finiscono per accentuare la loro fragilità e minare le loro capacità di sopravvivenza. Alcuni analisti hanno provato a calcolare il valore dei principali marchi del lusso e della moda a capitale italiano (circa una novantina di aziende), nel caso in cui fossero stati quotati, e il risultato è stato un valore inferiore all’Eni.
Il successo di queste imprese è dovuto alla spinta imprenditoriale, ma nel lungo periodo questa può risultare insufficiente, senza l’adeguato sostegno di un Sistema Paese sempre più schiacciato dalle impellenze di un debito abnorme. Il gap tra le prestazioni positive e la dimensione (e capitalizzazione) ridotta rende, pertanto, appetibili le imprese eccellenti del made in Italy, che diventano vere e proprie prede di grandi gruppi multinazionali, alimentando un fenomeno che rischia di svuotare definitivamente il nostro sistema industriale, nella misura in cui impatta direttamente sulla bilancia dei pagamenti, sull’occupazione, sul territorio locale.
Il pericolo è che le nostre imprese, inserite nei grandi gruppi internazionali, possano sì accedere a capacità manageriali evolute ed a canali di sbocco internazionali, ma al prezzo di trasferire alla “casa madre” straniera la sovranità ed i flussi di profitto. Ne deriva l’impoverimento del nostro tessuto industriale, ridotto ad imprese marginali, molto spesso semplici sussidiarie di produzione di grandi multinazionali senza top manager sul territorio.

Cosa fare per arginare questo fenomeno e contenere l’ondata di acquisizioni che sembra travolgere il nostro paese senza ricorrere all’innalzamento di barriere all’ingresso ormai impensabili nell’era globale? Occorrono azioni politiche drastiche e, dove possibile, legislative che agevolino la crescita e la fusione delle imprese migliori, sostengano il finanziamento e la capitalizzazione aziendale, facilitino la massa critica per competere nella distribuzione internazionale. Occorre altresì rafforzare il rapporto tra territorio e competenze, nei sistemi di ricerca e formazione, nella manifattura e nel branding, creando le condizioni che favoriscono il mantenimento in loco della capacità produttiva ed il reinvestimento dei profitti in innovazione.

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