Un’indagine di InfoJobs ha messo in luce la realtà dello smart working in Italia in questo particolare momento storico, caratterizzato dall’emergenza sanitaria Covid-19, che obbliga a casa buona parte della popolazione italiana a tutela della salute pubblica. I dati emersi descrivono un Paese che ha risposto all’emergenza utilizzando in maniera massiccia lo smart working: il 72% delle aziende ha messo a disposizione in tempi brevi mezzi e strumenti per permettere ai collaboratori di proseguire il lavoro da remoto. Tuttavia, appare evidente che non tutte le tipologie di business o non tutte le funzioni possono essere svolte in smart working.
La situazione attuale in Italia: in smart working il 15% dei lavoratori
Sempre sulla base dei dati di InfoJobs risulta, infatti, che i lavoratori italiani in smart working siano il 15%, mentre la parte restante della forza lavoro sembra attualmente a casa senza reddito (45% dei rispondenti, percentuale che sale al 50% per le donne), oppure in ferie o in congedo (25%), e per un restante 13% si reca ancora sul luogo di lavoro, senza nessuna modifica alle modalità di prestazione del servizio.
L’apprezzamento per l’adozione del lo smart working per assicurare la continuità del business emerge con il 64,5% delle aziende che dichiara la soddisfazione dei propri dipendenti al riguardo.
Tra le aziende che hanno attivato lo smart working questi giorni convulsi, vi sono molti neofiti in quanto ben il 56% delle aziende dichiara di applicarlo per la prima volta, mentre il 29% l’ha esteso a più figure o su più giorni. Lato lavoratori, le percentuali sono ancora più polarizzate, in quanto il 79% afferma di adottarlo per la prima volta, mentre per il 14,5% sono solo cambiate le modalità di fruizione e per il 6,5% non c’è stato alcun cambiamento rispetto a prima.
“Su ciò che avverrà una volta superata l’emergenza sanitaria, le aziende sono caute a parlare di rivoluzione -afferma Filippo Saini, Head of Job di InfoJobs- Anche i lavoratori sembrano apprezzare le potenzialità del lavoro da remoto, ma sono ben lontani dall’augurarsi che possa essere la modalità esclusiva e prioritaria di domani. In generale, dalla nostra indagine emerge un’Italia molto pragmatica e realista, che distingue le misure eccezionali dai propri desideri e dalla speranza per la nuova normalità di domani”.
Criticità da superare per accelerare la digital transformation
Alcuni contraccolpi sulla produttività sono inevitabili, soprattutto per la tempistica di urgenza che ha reso lo smart working, dove applicabile, imprescindibile da un giorno all’altro. Chi è stato colto alla sorpresa, essendo in fase primordiale della digital transformation, di sicuro accusa i malesseri più forti. Le difficoltà, infatti, non mancano tanto che il 19% delle aziende sostiene che lo smart working non stia funzionando, complici la struttura o il business che mal si sposano con il lavoro da remoto. In linea più generale, le maggiori criticità sono legate soprattutto a problemi di tipo organizzativo (44%) per mancanza di supervisione e controllo sul lavoro del personale, e relazionale (42%) perché manca il confronto quotidiano e il lavorare fianco a fianco.
Smart working nel post Covid-19
Nel dettaglio, post-COVID-19, per il 30% delle aziende non ci saranno cambiamenti delle modalità di lavoro rispetto al business pre-COVID-19, mentre il 28% dovrà valutare gli sviluppi legislativi per implementare a regime lo smart working e il 24% lo abiliterà ma solo per una parte dei dipendenti. Sulla stessa lunghezza d’onda anche i lavoratori, tra i quali il 71% vorrebbe il lavoro agile 1 o 2 giorni a settimana (89% per le donne con figli), mentre solo il 16% auspica uno smart working full time e il 13%, invece, preferisce il lavoro in ufficio, evitando qualsiasi compromesso da remoto.
L'analisi delle Nazioni Unite: l'impatto del Covid-19 sul lavoro
Questi dati si inseriscono in un panorama globale sul lavoro molto complesso e delicato. L’ILO, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro legata alle Nazioni Unite, ha aggiornato al 7 aprile 2020 il documento “ILO Monitor 2nd Edition: COVID-19 and the world of work”, ovvero un analisi che restituisce, a livello mondiale, un quadro degli impatti del virus sul mondo del lavoro. Si stimano inoltre enormi perdite tra i diversi gruppi di paesi, soprattutto quelli a reddito medio-alto (7% o 100 milioni di lavoratori a tempo pieno), superando di gran lunga gli impatti della crisi finanziaria del 2008-2009, identificando i settori più a rischio nel campo dell’ospitalità, della ristorazione, delle manifatture, del retail non legato al food e di alcune attività commerciali e amministrative.
Il macrodato più rilevante a livello globale è quello dei circa 1,25 miliardi di lavoratori impiegati nei settori prima citati come ad alto rischio per licenziamenti, riduzioni dei salari e dell’orario di lavoro. “Questo è il più grande test per la cooperazione multilaterale in oltre 75 anni”, ha affermato Guy Ryder, direttore generale dell’ILO. “Se un paese fallisce, allora falliamo tutti. Dobbiamo trovare soluzioni a livello globale che aiutino tutti i segmenti della nostra società, in particolare quelli che sono maggiormente vulnerabili o meno in grado di aiutare sé stessi. […] Dobbiamo mirare a ricostruire al meglio in modo che i nostri nuovi sistemi siano più sicuri, più equi e più sostenibili di quelli che hanno permesso il verificarsi di questa crisi”.