Sostenibilità e digitale: capire le regole del gioco

La brand reputation non deve abusare della mancanza di consapevolezza digitale. Quest’ultima ha bisogno di tempo per essere maturata e superare gli ostacoli sociali. (da Mark Up 319)

La rivoluzione digitale è un pilastro dello sviluppo sostenibile. Questo è quello che i brand si sentono ripetere continuamente e per questo cercano di progettare azioni coerenti con una società orientata a essere sempre più digitale e sempre più ecologica. Se alcuni brand hanno scelto la strada dell’attivismo e gli influencer sono sempre più impegnati in una divulgazione culturale su digitale e green, i cittadini/consumatori studiano le loro strategie per usare al meglio il proprio potere al fine di proteggere, oltre al portafogli, sia l’ambiente naturale sia il proprio ambiente mentale, scegliendo i propri influenti (un concetto appartenente alle pubbliche relazioni che indica persone con un’influenza sull’opinione pubblica, ma che non hanno relazioni d’interesse diretto con le aziende) e gli stili di attivismo. Abbiamo intervistato Lilia Giugni, docente di Strategie per l’innovazione sociale presso l’Università di Bristol e attivista che sta presentando in giro per l’Italia, spesso insieme ad associazioni ambientaliste come Friday for Future e Extintion Rebellion, il libro La rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere). Uno dei temi fondamentali per la brand reputation è non abusare della mancanza di consapevolezza digitale, consapevolezza che ha bisogno di tempo per essere maturata e superare gli ostacoli sociali. Il rischio è giocare a nutrire i difetti cognitivi della nostra mente, un comportamento non sostenibile, guardando anche ai goal 2030. Un tema delicato, perché incide sui sistemi di regolamentazione che sono sempre più necessari (e lo saranno anche per i protocolli delle piattaforme di brand), ma non possono sconfinare in strumenti di censura o in un neo-puritanesimo.

Come definirebbe il concetto di consapevolezza digitale?
Approcciare le tecnologie digitali in modo consapevole non significa semplicemente saperle usare con una certa dimestichezza, ma anche avere un’idea chiara delle dinamiche che si celano dietro il funzionamento, la produzione e la distribuzione delle risorse tecnologiche. Purtroppo su questo aspetto c’è un certo ritardo, perché ben poca formazione sul digitale viene disegnata in questa prospettiva.

Quali sono i presupposti di cui un brand deve tenere conto nelle sue attività digitali se vuole mantenere una relazione corretta e sostenibile con il consumatore?
All’interno della cosiddetta economia di piattaforma, molte strategie economiche si basano su un modello predatorio nei confronti sia di chi consuma sia di chi lavora. Penso alle piattaforme “gig”, che allocano servizi come le consegne o altre prestazioni occasionali e che si sono spesso trovate nell’occhio del ciclone per il loro trattamento di lavoratori e lavoratrici. Ma penso anche alle grandi compagnie social, le cui strategie di monetizzazione dei dati dell’utenza si intrecciano ad alcuni dei più gravi problemi del nostro tempo, dal discorso d’odio alla disinformazione. Direi che un’organizzazione che oggi voglia fare attività digitale in modo etico debba interrogarsi seriamente tanto sulle nuove forme di sfruttamento all’interno della filiera di produzione tech quanto sulla sostenibilità sociale di molti attuali modelli di business digitale. Anche perché, per fortuna, esistono alcuni esempi virtuosi, da emergenti social network alternativi a piattaforme cooperative co-gestite dalla forza lavoro.

Nel costruire le loro piattaforme e i loro programmi di fidelizzazione del cliente, che spesso utilizzano strumenti di psicologia comportamentale, di cosa devono tenere conto i brand per non approfittare dell’inconsapevolezza digitale?
Se parliamo di brand che utilizzano le piattaforme mainstream per il loro marketing digitale, il problema sta proprio nel funzionamento e nella strategia economica delle piattaforme stesse, che sono appositamente disegnate per attivare quei meccanismi di psicologia comportamentale cui lei si riferisce. Un brand che prenda sul serio questo problema dovrebbe quindi innanzitutto aggiungere la propria voce alle discussioni oggi in corso sulla regolamentazione delle grandi piattaforme e della pubblicità online. Se, invece, parliamo delle piattaforme social che ospitano campagne di marketing, un passo avanti potrebbe consistere in alcune modifiche del loro funzionamento: da obblighi di trasparenza al divieto di manipolare algoritmicamente le visualizzazioni dell’utenza.

Cosa si sta facendo negli altri Paesi e cosa prevedibilmente arriverà anche in Italia in termini di regolamentazione?
Nel Regno Unito, il Parlamento discute in queste settimane i passaggi finali dell’Online Safety Bill, un tentativo di regolamentazione della rete che mette al centro la tutela dell’utenza, soprattutto di fasce vulnerabili come bambine e bambini. Negli Usa, il dibattito verte al momento sulla lotta contro i monopoli digitali. Nella Ue (e quindi anche in Italia), un importante cambiamento è segnato dal Digital Services e dal Digital Markets Acts, approvati di recente, che intervengono su questioni come la pubblicità online, la trasparenza algoritmica e la rimozione di contenuti illegali. Al momento, però, nessuno di questi provvedimenti scardina ancora il “cuore nero” del capitalismo di piattaforma, ovvero le strategie predatorie di monetizzazione di dati e interazioni. Ed è su questo fronte che attiviste e attivisti si preparano a combattere le loro prossime battaglie.

Che rapporto c’è tra digitalizzazione ed ecologia?
L’economia digitale viene spesso caratterizzata come “pulita” (ad esempio, si parla di smart working come di un modo di ridurre le emissioni determinate dagli spostamenti di lavoro). Ma l’industria tech ha un impatto sociale e ambientale notevole, che va dall’energia necessaria al funzionamento delle tecnologie di ultima generazione fino agli abusi umanitari ed ecologici di cui è disseminata la catena di produzione di molti gadget. Pensiamo solo alle fabbriche in cui vengono assemblati i nostri smartphone (destinati, tra l’altro, a diventare rapidamente obsoleti), o alle miniere in cui vengono estratti i minerali che li fanno funzionare - tutti siti spesso tristemente noti sia per il proprio impatto inquinante che per le violazioni dei diritti della forza lavoro. Per cui, sì, il rapporto tra industria tech ed ecologia è un altro tema che va messo al centro dell’impegno per un futuro sostenibile.

Chi è Lilia Giugni

Studiosa, scrittrice e attivista femminista. È docente di Strategie per l’innovazione sociale presso l’Università di Bristol e ricercatrice associata presso il Centro Studi di innovazione sociale dell’Università di Cambridge, dove ha studiato e insegnato negli ultimi dieci anni. Giugni è inoltre co-fondatrice e direttrice del think tank GenPol - Gender & Policy Insights, siede nel board di svariati network e gruppi femministi, oltre a essere contributor di testate italiane e internazionali. Il suo primo libro La rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere) è edito in Italia da Longanesi e nel Regno Unito, negli Stati Uniti e nel Commonwealth da September Publishing.

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