1. La crisi ha colpito tutte (o quasi) le tipologie di vendita: dal commercio tradizionale all'ipermercato
2. Lo sviluppo degli empori cinesi
Girando per strade e quartieri delle nostre città si vedono subito gli effetti della crisi: nelle vie, dai centri storici alle periferie, si nota qualche saracinesca abbassata, là dove prima c'era un bar, una boutique, un negozio di un'insegna locale o di qualche marchio internazionale (franchising).
Solo le high street resistono: sempre più simili alle gallerie degli shopping centre. Il commercio non è eterno, quindi il ricambio è fisiologico e certamente più sano di una politica protezionistica che prolunga l'agonia del punto di vendita.
Recessione democratica
La vera novità della crisi è che a livello distributivo ha colpito, per la prima volta e contemporaneamente, distribuzione moderna e dettaglio tradizionale: i due antichi contendenti si ritrovano sulla stessa barca in acque agitate.
Il tessuto commerciale, e quindi anche quello sociale, s'impoverisce sempre più, mettendo in gioco la stessa identità del commercio, ormai trasformatosi in intrattenimento indipendentemente dall'incasso realizzato a fine giornata. Si crea, così, un circolo vizioso per cui la spettacolarizzazione del punto di vendita e dei prodotti sono strumento fine a se stesso per attirare la clientela e nello stesso tempo causa dei flop commerciali.
Uno degli esempi più eloquenti è il negozio di quartiere per eccellenza, la panetteria, trasformatasi, alla ricerca di fatturato, in bar, caffetteria, punto di ristoro e happy hour con risultati devastanti in termini di profitto e di perdita di professionalità. Intanto si vende sempre meno pane e di minore qualità.
Il caso Gran Market
In questo deserto di idee il caso Blockbuster è particolarmente interessante. Dopo aver rappresentato per anni il simbolo dell'home entertainment, l'insegna americana si è arresa e sta progressivamente chiudendo i suoi punti di vendita.
Location di circa 500 mq in prossimità dei centri storici o su strade ad alto traffico dove abitualmente si parcheggiava in seconda fila per consegnare prima la videocassetta poi il Dvd.
Punti di vendita quindi fortemente appetibili da un operatore commerciale sia per la posizione sia per l'importanza della rete (in un colpo solo puoi portarti a casa più negozi), ma che a oggi sono ancora sfitti o hanno dato vita a nuove e anomale insegne.
La principale è Gran Market, un convenience non alimentare a imprenditoria cinese che può offrire dalla parrucca, alla macchina del caffè, alle scarpe per bambino, allo slip da donna. Il tutto con un layout, arredo (cestini promozionali compresi) e luci che non hanno niente da invidiare a insegne ben più conosciute.
Piuttosto è il prodotto made in China che può lasciare qualche perplessità. Ma forse a nessuno importa perché i prezzi bassi e la vicinanza sono aspetti ben più interessanti che la garanzia di qualità (e poi Bialetti non ha spostato la produzione proprio in Cina?).
L'utilizzo del volantino consegnato a domicilio non fa che confermare la serietà dell'insegna, proprio come quelle indigene.
È un mistero come uno spazio di queste caratteristiche posizionato spesso in prossimità dei migliori supermercati di città non possa interessare a nessuno. Un convenience di surgelati o prodotti per la casa per esempio.
Gli affitti comunque non devono essere molto elevati, se se li può permettere Gran Market….
*M&T
All'attacco della Cina
Wal-Mart ha già aperto dei punti di vendita convenience in Cina così come FamilyMart, l'azienda giapponese leader nel format in Asia. Punti di vendita che non hanno nulla dei concept londinesi: la Cina è grande, densamente popolata e ancora fortemente rurale, trattasi dunque di piccoli supermercati di quartiere/paese dove trovare prodotti di marca che superano l'economia del baratto o dell'autoproduzione. Superette più che convenience, anni '60 piuttosto che nuovo millennio.