Storie di artigiani (in cucina) e di mercati: Umberto Montano si racconta

Sono un immigrato della Basilicata, arrivato a Firenze nel 1981 per fuggire ai taglieggiamenti di micro gruppi criminali che avevano preso di mira l’unica fonte di reddito che mi permettesse di mantenere la famiglia: un pub in provincia di Matera, a Stigliano”.

Così inizia la storia di Umberto Montano, patron di Mercato Centrale, esteta della vita e cultore del cibo. Lo incontriamo in quello che oggi è ancora un cantiere, ma che, entro la primavera 2020, sarà il nuovo Mercato Centrale di Milano, nell’ala est della Stazione Centrale, ma lasciamo Umberto continuare la sua storia: “Sono fuggito e così sono arrivato a Firenze a mani vuote. Una vita difficile all’inizio: avevo 21 anni ed ero già papà, eravamo due ragazzini che si erano trovati a fare i genitori, quindi dovevo mantenere una famiglia e fare le cose bene per forza.

La storia, iniziata sui banchi di scuola, non durò a lungo, ma mio figlio Domenico era e rimane una gioia. Oggi è il direttore generale del Mercato ed è la risorsa più importante della nostra organizzazione; è lui che ha introdotto l’elemento che marca la differenza fra Mercato Centrale e tutte le attività più o meno affini, grazie al collegamento con le attività culturali in senso compiuto. Si fa cultura sul serio, arte, cinema, letteratura, poesia, musica, grazie alle scelte e alla solida cultura che Domenico riesce a portare in azienda.

A Firenze come andò?

Arrivai lì come insegnante della mitica scuola alberghiera Saffi, allora la formazione professionale nei nostri settori era immensamente più avanti di oggi; nel tempo abbiamo avuto una involuzione nella formazione delle professioni turistiche nella ristorazione, spiegabile, ma inaudita.

L’Italia è uno dei pochi Paesi del mondo civile in cui, se un giovane volesse scegliere un percorso di studi per fare carriera nelle nostre professioni, non saprebbe da dove cominciare. È la più grande mancanza formativa del nostro Paese, perchè l’elemento umano nelle professioni è quello che più permette di portare il risultato finale; la personalizzazione della tazzina di caffè è data da quanto è forte e bravo il sorriso di chi te lo serve.

Come sei arrivato a fare l’imprenditore?

Andai a lavorare per la prima volta a 14 anni, allo Splendid di Portofino e la mia mamma, che mi vedeva andare via per la prima volta, mi fece cucire le scarpe da uno zio calzolaio che, siccome costavano care, per farle solide, ci mise il salvapunta di ferro. Così sono arrivato vestito da damerino, con i pantaloni neri, la camicia bianca e queste scarpe che appena posai i piedi sul pavimento di marmo, clack! ... sembrava dovessi ballare il tip tap. Mi salvò, Antoine, grande personaggio, sempre elegantissimo, che la sera stessa, all’inizio del mio turno, mi fece trovare, dietro il banco, un paio di scarpe con la suola di gomma. Sono queste le piccole grandi cose che ti appassionano a queste professioni. Il mio sogno era fin dall’inizio fare qualcosa di mio: prima il pub che non ha avuto fortuna, poi a Firenze nell’83 ho aperto un piccolo spazio che si chiamava Alle Murate, in via Ghibellina, vicinissimo all’arcinota Enoteca Pinchiorri, che per i primi anni (fino al ‘90), è stato un travaglio infinito: facevo l’insegnante, ma anche il cuoco, il cameriere, il lavapiatti; non avevo nessun dipendente tranne uno, il mio papà, di professione imbianchino. La sera, quando finiva di lavorare, Veniva a darmi una mano a pulire e lavare i piatti, mentre riordinavo. Entravo la mattina a fare la linea di cucina, poi andavo a scuola, tornavo nelle ore buche; cucinavo, fino alle 7 di sera, e poi passavo in sala, mentre, a servire i piatti che avevo cucinato, c’era un giovane come me, Leonardo Romanelli oggi arcinoto gastronomo, che lavorava dalle 8 alle 11 di sera, gli davo 50.000 lire. Quando avevo finito di servire i clienti, tornavo a fare il cuoco e, prima di chiudere, pulivo il ristorante con mio papà. Questa vita è durata dal 1983 fino a tutto il 90, 7 anni di fatiche immani, però ero a Firenze e quel che facevo mi piaceva. Nel ‘90 decisi di fare più seriamente l’imprenditore, approfittai della grande amicizia di alcuni architetti clienti del ristorante, come Roberto Magris, di Firenze, e Cristiano Toraldo di Francia, che, in cambio di cene, mi progettarono un ristorante ideale realizzato in quello stesso spazio. Provai, feci nuovi debiti, ma funzionò: Alle Murate è stato premiato, apprezzato dalle guide e dalla critica. Nel 2005, l’ho trasferito in Via del Proconsolo, in un palazzetto del ‘300 semiabbandonato, dove scoprii tracce di affreschi ovunque; li affidai a una storica dell’arte, Maria Monica Donato che rinvenì elementi di pittura politica tra le più preziose mai arrivate a noi dal Medioevo; trovò anche l’unico ritratto documentato di Dante Alighieri. A questo ristorante ho dedicato il mio libro Il cibo e la bellezza.

Chi te l’ha fatto fare di impelagarti nel Mercato Centrale?

Era ed è la sintesi di tutta la mia attività professionale: lì veramente ho potuto perseguire gli obiettivi sognati. Per esempio, ho sempre avuto una propensione speciale per i protagonisti del cibo italiano che non vengono mai presi in considerazione. Per me i grandi protagonisti della cucina italiana sono due: chi fa da mangiare in casa e gli artigiani, come il pescivendolo, il panettiere, il gelataio, il pastaio. In città non se ne vede più uno, ma io volevo metterli insieme ... e vorrei mettere insieme anche le massaie. Ma è un’altra storia. Torniamo a Firenze, dove si presentò l’occasione: veniva dato in affidamento il primo piano del Mercato Centrale: un bando dell’allora amministrazione Renzi mandò a gara questo spazio; per tre volte andò deserta, la quarta arriva a noi. Il primo a essere portato lì fu Oscar Farinetti, direttamente dal sindaco Nardella, Oscar disse: “Non ci pensate: da questo spazio non caverete un ragno dal buco”. È stata la mia fortuna.

Invece ...

... Nacque Mercato Centrale, con un socio, Claudio Cardini: avevo bisogno di qualcuno che mi sostenesse per affrontare i grandi numeri. Claudio non ne ha paura, fa operazioni immensamente più grandi, ha campeggi e villaggi turistici da 15 mila persone. Lo conobbi nel 2010, ci presentò un comune amico e, nel 2012, gli ho proposto di fare il Mercato. Lo portai la domenica mattina a vedere questo spazio di 3.000 mq; lui mi strinse la mano e disse “Se guidi tu, lo faccio volentieri”. Così abbiamo suggellato questo rapporto societario che si è mostrato così splendente che ha portato con sè anche una storia d’amore: i nostri due figli, si sono conosciuti grazie a noi, si sono innamorati e oggi hanno una bambina. Così, da 90 giorni siamo nonni.

Arriviamo ai giorni nostri. A Firenze siete entrati in un mercato, a Roma e a Milano in una stazione, una scelta peculiare ...

Protagonista è sempre lo spazio, una ubicazione urbana che coincide con le aspettative del mercato. Noi siamo per il ventre della città, non per il cuore, per questo abbiamo bisogno di spazi molto grandi e gratificanti. Sono questi i fattori che ci hanno portato a scegliere il mercato, come il pilastro per costruire il nostro modello. Adesso il concept permette di esulare dalla collocazione precisa del mercato cittadino. Certo la vocazione migliore sarebbe quella di avere i diversi mercati della città adattati secondo Mercato Centrale. Ci ho anche provato, ma c’è un tale flagello tra la normativa e la possibilità di realizzarlo; a Firenze era stato tutto perfettamente spianato, altrove no: c’è la commistione, 7 artigiani che ci sono già, 50 bancarelle che ci devono stare per forza, una proprietà che non diventa mai di nessuno, ognuno che deve fare parte di un consorzio ...

Come funziona, allora, il rapporto con gli artigiani?

Bene e in maniera semplice: do al macellaio la macelleria, gli insegno a cucinare, con assoluta semplicità, un forno e una carbonella, niente di più; se gli piace, può anche somministrare i prodotti della sua vetrina. Al pescivendolo ho dato una friggitrice e un forno, al pastaio una pentola per la pasta e dei tegamini per saltare la pasta ... In altre parole, a ciascuno ho dato l’opportunità di fare ristorazione, anche a quelli che non la sapevano fare. In quest’ottica di artigianalità, a Milano avremo tre macellerie: una piemontese, una toscana e una specifica della Val di Chiana.

Quali le caratteristiche degli artigiani?

Li incontro, li provo, li vedo. Devono essere bravi innanzitutto, se numeri uno, meglio. Soprattutto devono integrarsi con la filosofia del Mercato, volere fare bene, essere in sintonia con una squadra molto numerosa. A Milano saremo circa 40.

Chi li seleziona?

Io. Qui c’è dittatura assoluta: scelgo la gente che mi piace, non faccio fare nessuna gara; mi devono piacere fino all’ultimo. Non c’è discussione ... neanche mio figlio e il mio socio mettono bocca.

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