Taxi (o Uber) driver / 1

Recentemente, la lobby dei tassisti ha fatto sentire la sua voce, con l’ennesimo sciopero, in questa occasione volto a protestare contro l’emendamento al decreto Milleproroghe, che ha fatto slittare al 31 dicembre 2017 l’entrata in vigore della normativa contro l’esercizio abusivo del servizio Taxi e Ncc.

Corsi e ricorsi direbbe Giambattista Vico, ci risiamo, la storia (a volte) si ripete: un settore sembra stabile, ciascun player gode della propria posizione, finché l’innovazione - il processo schumpeteriano di “distruzione creatrice”- sblocca lo stallo e porta aria fresca nell’arena competitiva. E così i newcomer modificano la struttura del mercato, erodono le rendite e costringono ad una redistribuzione del valore. Le forze della tecnologia e dell’imprenditorialità scrostano un equilibrio arrugginito.

Tuttavia, arrugginiti o no, gli incumbent che in quel “vecchio equilibrio” operavano con successo di solito non hanno intenzione di far posto ai nuovi entranti, di dividersi la torta con i nuovi concorrenti. Piattaforme come Booking, Airbnb e (per venire a noi) Uber, hanno scatenato reazioni di comprensibile ostracismo nel settore turistico-alberghiero e, appunto, da parte dei tassisti.

E allora, “benedetta” o “maledetta” innovazione? Benvenuta sharing economy, o si stava meglio quando si stava peggio – e tanti saluti alle ostriche di Verga e al Gattopardo di Lampedusa?

Dipende dai punti di vista, certo, ma qualche riflessione (super partes, se ci riusciamo) va’ fatta: per un verso, la sharing economy porta con sé effetti evidentemente pro-competitivi: aumenta l’offerta a disposizione dei consumatori, riduce i costi di transazione, facilita il contatto tra clienti e fornitori riducendo le asimmetrie informative. Inoltre, la sharing economy aumenta l’efficienza sia dal lato dell’offerta, consentendo di incrementare la saturazione di capacità sottoutilizzata, che della domanda, con effetti redistributivi poiché una parte del valore creato viene trasferito a soggetti che altrimenti non avrebbero consumato affatto, o non sarebbero entrati nel mercato.

E allora perché tanto rumore, questi tassisti? Perché non si rassegnano e accettano la sfida? In fondo la questione sembra semplice: un tassista offre un servizio, porta l’utente da un posto ad un altro, ad un certo prezzo. Attraverso App come Uber l’utente può comprare il medesimo passaggio ad un prezzo significativamente inferiore; vantaggio competitivo di costo, lo chiamano i libri di management.

È tuttavia necessario individuare le ragioni sottese al differenziale di prezzo: se gli autisti digitali fondano il loro vantaggio competitivo esclusivamente sull’asimmetria regolatoria che svantaggia gli incumbent, qualche ragione ce l’hanno anche loro! In altri termini, se Uber “costa meno” rispetto al taxi solo perché in grado di eludere il fisco e di aggirare la normativa sulla sicurezza, ripartendosi il risparmio con gli utenti, il vantaggio di costo così ottenuto non affonda le sue radici nell’efficienza e “nel merito”.

Quindi naturalmente sì all’innovazione, ma cum grano salis!

La sfida? Bilanciare i benefici della concorrenza dinamica con gli svantaggi sopportati dagli incumbent, condizionati dalla «vecchia» regolazione. Shumpeter aveva già chiaro il problema nel lontano 1942: «…there is certainly no point in trying to conserve obsolescent industries indefinitely; but there is point in trying to avoid their coming down with a crash and in attempting to turn a rout which may become a center of cumulative effects, into orderly retreat…» (Can Capitalism Survive?, Schumpeter, 1942).

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