Teorie e pratiche manageriali: convergenze e contraddizioni

Uno dei problemi dell’economia e del management è la divaricazione tra ciò che si teorizza e si insegna e ciò che si pratica. Molti concetti nella pratica sono applicati in modo distorto.

Ricordate il gioco televisivo “Vero o falso”? Possiamo applicarlo al rapporto che esiste tra teorie di management e comportamenti concreti. Con riferimento ad alcune tematiche, è possibile valutare se esse sono caratterizzate da convergenze o da crescenti contraddizioni. Vediamo alcuni esempi.

Si sentono molti imprenditori, CEO e dirigenti di vario livello affermare nelle dichiarazioni ufficiali e nelle cerimonie che i risultati sono stati conseguiti “grazie al lavoro di squadra”, ma poi nelle stesse aziende sono applicati sistemi di bonus e stock option che premiano solo un numero ristrettissimo di top manager. Ad esempio i nove massimi dirigenti di Apple, nel 2011, hanno avuto bonus e stock option per un valore pari agli incentivi riconosciuti a 95.000 dipendenti e, nel 2012, a 89.000 dipendenti (come riportato nel recente libro di Manuela Mazzoccato, Lo stato innovatore), il che evidentemente è una contraddizione rispetto alla teoria del “gioco di squadra”.

Esempi simili possono essere fatti con riguardo a tantissime imprese e istituzioni finanziarie. Si parla di “gioco di squadra” e di “competitività basata sulla collaborazione tra i dipendenti” ma poi vengono introdotti e privilegiati sistemi di incentivazione legati alle performance individuali, con la motivazione del riconoscimento da dare al talento, alla professionalità, all’impegno. Chi conosce o ha sperimentato questi sistemi di incentivazione sa benissimo che spesso le performance di alcune persone a vari livelli organizzativi sono dovute al semplice fatto che esse riescono, con vari comportamenti, a capitalizzare il lavoro e il contributo di altri.

Nelle più avanzate teorie di management, nei paper e nelle aule universitarie e delle school of management si sostiene che le persone e le conoscenze sono il vero e più grande fattore di competitività del presente e del futuro, ma poi le decisioni reali sono di tutt’altro segno. Quando occorre intervenire in imprese in crisi, nella stragrande maggioranza dei casi, si incomincia a ridurre “indiscriminatamente” il numero dei dipendenti per tagliare i costi, facendo perdere alle aziende l’avviamento costituito dalle conoscenze accumulate non suoi banchi di scuola e nelle aule universitarie o dei master ma con l’esperienza che, nel bene e nel male, è sempre maestra di vita. Se ciò può aver senso per quelle aziende nelle quali il costo del personale è elevato, spesso la riduzione del personale viene adottata come misura anche in quelle imprese nelle quali il costo del personale è alquanto ridotto (inferiore al 15%). Non solo, ma si assiste al paradosso secondo cui la riduzione del personale fa aumentare il valore delle azioni delle imprese. Anche in questo caso i comportamenti sono riferibili a logiche di tipo deterministico, poiché si assume che sempre e comunque la riduzione del personale consenta il rilancio e il recupero di redditività delle imprese, cosa che evidentemente non è detto avvenga.

Credo che in 15-20 anni la parola “stakeholder” sia citata nei paper e nelle aule molto più spesso della parola “shareholder”. Anzi, moltissime volte si parla di strategie orientate alle attese degli stakeholder e non semplicemente alle attese degli shareholder. Ma in una ricerca di 6-7 anni fa, estesa ad alcune migliaia di diplomati MBA, l’85% degli intervistati ha risposto che la finalità prioritaria delle imprese è quella di rispondere ai propri azionisti/shareholder, il 12% che è di creare il massimo valore per il cliente (approccio di marketing del cliente come re) e solo il 3% citava altre finalità, tra le quali la risposta alle aspettative di tutti gli stakeholder o, in misura minore, la responsabilità sociale. Non conosco indagini più recenti, ma credo che le percentuali non siano oggi molto diverse se è vero, com’è vero, che anche molti uomini di governo italiani parlando della Fiat e di altre imprese hanno affermato che “è giusto che le imprese facciano l’interesse dei propri azionisti, poiché così facendo creano lavoro e opportunità per tutti. Ciò sarebbe vero se in una economia globale le imprese non avessero la possibilità di spostare i redditi e i profitti nei paesi dove sono più basse le aliquote fiscali. In questo modo vi è un trasferimento di ricchezza che è perlomeno discutibile.

Continuando nel discorso, si può ricordare che anche il termine “governance” è sicuramente tra i più usati nelle teorie e dagli studiosi di management, per mettere in evidenza che oggi il potere organizzativo e decisionale deve essere distribuito. Peccato che in molte imprese sia ancora prevalente il modello di relazione di tipo comando-controllo. Si sostiene che il potere organizzativo viene decentrato (il famoso modello di empowerment) ma poi si usano strumenti quali budget rigidi per poter guidare e controllare spesso penalizzando l’autonomia e la creatività di chi non è nei posti di comando. Non bisogna essere pessimisti, ma almeno un dubbio viene: il gap tra il dire e il fare del management si sta allargando o riducendo? Non possiamo salvarci dicendo “ai posteri l’ardua sentenza”, poiché il futuro dei nostri figli e nipoti dipende dalla coerenza con cui imprenditori, manager pubblici e privati si comportano oggi.

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