Tra meme diplomacy & brand activism: il conflitto russo in Ucraina visto da aziende e piattaforme

Chiedersi se le aziende debbano prendere posizione o rimanere neutrali è legittimo. È, però, in atto un cambiamento di posizionamento dei brand in termini di responsabilità e le dinamiche di diplomazia aziendale sono sempre più strategiche

C’è un duplice fronte di guerra che oggi si sta purtroppo combattendo tra Russia e Ucraina: uno fisico e uno digitale. Lo scontro fisico ha il deplorevole, retrogrado e assurdo sapore delle guerre novecentesche che nel 2022 sembra fuori dal tempo e soprattutto mostra come si faccia fatica a fare propri gli insegnamenti della storia, mettendo in atto delle ingiustificabili violenze che sconvolgeranno l’ordine geopolitico mondiale già compromesso da una pandemia globale e soprattutto causeranno morte e dolore a tante vittime innocenti.

Per quel che riguarda il fronte digitale, per quanto non sia il primo conflitto (si pensi alle primavere arabe o alla situazione in Afghanistan ad agosto 2021) che ha a disposizione come amplificatore il digitale e le reti sociali – ribadendo che non ci sono tragedie di serie A e di serie B – i fatti dimostrano che quello che sta succedendo tra Ucraina e Russia in queste ore sia qualcosa di inedito per la sua magnitudo nell’attuale “thumb-scrolling society” (società in cui si passa il tempo a scorrere compulsivamente il proprio feed social), dove algoritmi ad hoc cercano di rendere gli utenti dipendenti e voraci di contenuti di loro interesse o per cui sono in target.

Molti commentatori hanno definito questa guerra la prima vera e propria “TikTok war”. Ciò è lo specchio di come la trasformazione digitale è andata ben oltre l’ambito aziendale dei brand e il coinvolgimento delle persone singole, investendo la comunicazione politica e facendo dei nuovi media digitali non solo mezzi di propaganda verticale (come lo sono i media tradizionali, con messaggi che partono da una fonte e a cascata raggiungono i diversi target), ma dei veri e propri ecosistemi dove la comunicazione è orizzontale e bidirezionale. I social media, infatti, mettono sullo stesso piano l’esperto e il leone da tastiera con potenzialità di reach e impatto dei propri messaggi dagli esiti discutibili.

Il processo di disintermediazione a cui si è assistito negli ultimi anni ha un asset di valore nel digitale e nei suoi spazi social. Non è un caso che già da tempo si parli di Twitter diplomacy ("Twiplomacy" o "hashtag diplomacy") che ha visto nelle fattezze proprie di un social come Twitter il posto per diffondere messaggi istituzionali in tempo reale, in certi casi anche andando contro il protocollo e la consuetudine propria della politica e della diplomazia (causando spesso anche complicazioni e ulteriori “casi diplomatici”).

Sulla falsa riga di un fenomeno, ormai consolidato quasi come prassi (ci si aspetta che i leader facciano delle dichiarazioni su Twitter o su qualche altro social in caso di eventi/incontri rilevanti), l’ambito socio-economico e politico non sono esenti da un’ulteriore fenomenologia propria della rete che questa volta è condita dall’elemento ironia: quella dei meme. Il termine meme deriva dal greco mimema che significa “ciò che viene imitato” e risulta essere un’unità comunicativa affascinante, dato che riesce a trasmettere in maniera immediata il suo contenuto ed invoglia la sua stessa diffusione. Quando qualcosa o qualcuno (che sia un’azienda con un suo prodotto/evento, personaggio noto di qualsiasi ambito) diventa meme (in positivo o negativo) è comunque un “successo”, in quanto la viralità dello stesso è alle porte. Alessandro Lolli, nel suo libro “La guerra dei meme: Fenomenologia di uno scherzo infinito” (Effequ 2020) definisce il meme come “il tentativo di mettere a sistema la dimensione umana, soprattutto nelle sue ricorrenze e regolarità, nei suoi aspetti storici e sovraindividuali”. In breve, un meme è tutto ciò che nella cultura si replica, e vedere in questi giorni applicare le logiche dei meme a quelle della diplomazia (meme diplomacy) si crea un mix sulle prime piuttosto spiazzante, che chiede uno sforzo riflessivo in più per capire fino a che punto bisogna spingersi in un frangente così drammatico come quello della guerra.

Un ragionamento simile, relativo soprattutto su quanto spingersi in un determinato campo, specialmente se sensibile, sta coinvolgendo l’ambito della comunicazione aziendale. Al giorno d’oggi, un’azienda, con la sua online identity, è parte dell’arena digitale dove si incontra con forme comunicative dai tone of voice più diversi (meme compresi) e con delle trend stilistici e contenutistici tra cui scegliere e/o a cui contribuire, come dovrebbe comportarsi? Dovrebbe prendere posizione? Idealmente, nessuno costringe i brand a prendere posizione, e questi potrebbero legittimamente tenere un basso profilo cercando di far passare la tempesta. I social media, tuttavia, hanno influenzato molto questa dialettica. La posizione per cui un brand è come un cittadino (anzi ben più di un cittadino in termini di impatti) a cui, in coscienza, si chiede di prendere posizione equivale al dispiegamento del suo senso di responsabilità. Nei loro studi, Philip Kotler, Christian Sarkar e Paolo Iabichino fanno rientrare questo concetto sotto l’etichetta di Brand activism, definibile come l’impegno e il coinvolgimento verso una o più cause di rilevanza sociale, ambientale, politica, economica dimostrato da una marca attraverso campagne di comunicazione, iniziative, progetti ad hoc. È, quindi, pertinente associare a quanto detto anche l’espressione corporate diplomacy per esplicitare la priorità che ha assunto per le aziende il prendere posizione. Di fatti, come la diplomazia più tradizionale, la diplomazia aziendale, prima e per trasformarsi in attivismo di brand, ha bisogno di capire quali sono le cause a cui più tengono o che più dividono le comunità di riferimento, di costruire un’agenda di priorità tra queste e, in alcuni casi (non quello delle violenze di una guerra però), di giocare con la loro rilevanza percepita.

Le stesse piattaforme, nel loro essere allo stesso tempo dei brand, sono state le prime a muovere i passi in questa direzione nel contesto dell’invasione russa in Ucraina. Meta, ad esempio, ha immediatamente istituito un gruppo, una task force, di fact checking per controllare le informazioni diffuse sui suoi canali sul tema, aggiungendo, inoltre, una modalità di sicurezza extra per gli account dei suoi utenti ucraini, oltre che, dal lato russo, togliere la possibilità di fare adv agli account media russi e conseguentemente di monetizzare (ciò ovviamente impatta sulla diffusione di contenuti di propaganda). Ciò ha portato ha tensioni con il Cremlino, il quale, in risposta al forte posizionamento dell’azienda di Zuckerberg, ha ristretto gli accessi ai social Meta nel paese. Meta, di fatto, rinuncia così ai soldi derivanti dalla monetizzazione dei media russi.

Twitter, invece, tra le diverse azioni messe in campo, ha limitato l’accesso all’app in alcune zone della Russia, ed ha cercato di dare la maggiore visibilità possibile ai messaggi destinati al popolo ucraino, come fosse una chat real time (istantaneità). La Twitter diplomacy portata avanti dal governo ucraino è, inoltre, qualcosa di fondamentale ed evidente in questi concitati giorni.

Sempre su Twitter, Elon Mask ha annunciato di aver messo a disposizione degli ucraini il suo servizio di internet super veloce Starlink.

YouTube, poi, ha ristretto la visibilità dei contenuti russi in Ucraina (su richiesta dello stesso governo ucraino) per evitare di esporre un popolo provato da tanta sofferenza allo storytelling manipolatorio russo, sospendendo anche la monetizzazione di canali del governo russo.

Pure Airbnb si è messa a disposizione per ospitare i rifugiati ucraini nelle zone limitrofe (iniziativa già messa in campo per i profughi afgani nell’agosto 2021), mentre, ad oggi, Google e Apple Pay non sono più disponibili in Russia.

Lo scorso 27 febbraio 2022, McDonald's ha annunciato che donerà cibo da distribuire ai bisognosi. La donazione di cibo includerà prodotti che non hanno bisogno di essere cucinati, come acqua, verdure, frutta, uova, panini e insalate.

Anche KFC ha preso un impegno simile, concentrandosi maggiormente sull'aiuto ai soldati. I ristoranti locali dell'azienda del Kentucky hanno aperto le loro cucine il 26 febbraio 2022 per preparare cibo per chi ne ha bisogno, ma in particolare per i militari, la difesa territoriale e gli ospedali.

In conclusione, sono tantissimi gli esempi di brand che stanno scendendo in campo con azioni concrete. È chiaro che non bisogna confondere, in questo caso specifico, la popolazione russa che non vuole il conflitto con chi, invece, ne è responsabile, e quindi tenere a mente le conseguenze delle proprie azioni nel lungo termine. D’altro canto, è davvero impressionante rendersi conto della portata complessiva che le azioni dei singoli brand possono avere in una situazione di crisi ed emergenza, tanto da quasi eguagliare l’aiuto e l’intervento di uno Stato terzo. Qui si esprime tutta la forza e la potenzialità dei brand: esserci per i propri utenti soprattutto quando serve. Il riscontro, a tempo debito, sarà assicurato.

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