Uber (o Taxi) driver / 2

La sfida Taxi vs Uber e lo sciopero delle auto bianche di qualche tempo fa ci danno lo spunto per ragionare di disruptive innovation, concorrenza dinamica e, conseguentemente, di redistribuzione del valore. Così, da un lato brindiamo alla sharing economy e agli effetti pro-competitivi delle piattaforme, dall’altro ci interroghiamo sui rischi di un‘asimmetria regolatoria (licenze, fisco, sicurezza) a cui gli incumbent devono soggiacere, e che invece gli scaltri tassisti digitali riescono ad eludere, ribaltando parte dei vantaggi ottenuti sul prezzo della corsa.

Salvo improbabili rigurgiti di protezionismo regolatorio, la domanda, nel lungo periodo (cioè man mano che gli utenti diventano sempre più digitali) si riverserà comprensibilmente su Uber o simili (già perché mentre noi parliamo, negli USA la concorrenza si gioca già tra piattaforme), spiazzando i profitti dei tassisti che, consci di ciò, scendono in piazza da Roma a Milano.

Oggi il problema è viceversa legato all’eventuale inerzia delle Autorità (sì insomma, se lo Stato rimanesse a guardare), in quanto ciò potrebbe implicitamente avallare lo sviluppo di un business model perverso che incoraggia gli attori a perseguire il vantaggio di costo non solo sulla base dell‘efficienza, ma anche facendo leva sull’elusione e/o evasione fiscale e regolatoria.

Ma cerchiamo di andare alla radice del problema, alla vera domanda: come arrivare ad un sano regime di concorrenza nel settore dei taxi?

Fino all’avvento di Uber, la concorrenza nel settore era a dire poco imperfetta. La regolamentazione, basata sulle barriere all’ingresso, ha costruito posizioni di rendita e determinato l‘imposizione di prezzi superiori ai costi marginali: bella camicia - il tassista che protesta in televisione - veste Ferragamo, e complimenti anche per l’orologio; intendiamoci, ha buon gusto, ma di sicuro il suo tassametro non è calibrato sul costo marginale.

Dunque per dirimere la partita tassisti contro Uber, occorrerebbe guardare alle barriere all’entrata, con particolare attenzione a quelle legali ed istituzionali. L’ingresso nei mercati può infatti essere oggetto di regolamentazione e l’arena competitiva si può restringere, certo, ma ogni restrizione deve essere a) giustificata dalla necessità di tutelare interessi pubblici, b) proporzionale e strettamente indispensabile per il raggiungimento di tali obiettivi.

Fuori da queste condizioni, una regolamentazione che drena l’ingresso nei mercati causa una ingiustificata restrizione al processo competitivo. Dunque, date certe regole valide per tutti (tassisti e piattaforme) su fisco, sicurezza o altri principi costituzionalmente rilevanti, se a Roma circolano N taxi o N+1, liberi di definire prezzi di mercato, francamente la lesione dell’interesse pubblico la si vede a fatica.

Ci sono parole che non vanno dette, nemmeno Harry Potter nominava Lord Voldemort tanto volentieri, ma forse a bassa voce, sussurrando, il settore in argomento si potrebbe liberalizzare… Dunque create le necessarie condizioni di parità in temini di regime fiscale e di normativa sulla sicurezza, se gli autisti digitali erodono la rendita dei tassisti, benvenuta sharing economy!

Ma vi è ancora un problema a monte, che Uber smarca con un click: la licenza. Cioè anche a fronte della stessa regolamentazione nel gioco, un tassista ha pagato anche per iniziare a giocare! Una corsa in taxi costa di più rispetto a Uber anche perché il tassista deve recuperare un dazio iniziale, ammortizzando (un po‘ su ogni corsa) il costo d’ingresso sopportato per comprare la licenza. Dunque liberalizzare sì, ma gradualmente, così da consentire l’ingresso degli innovatori, senza compromettere drasticamente la posizione degli incumbent. 

Come fare?

Come diceva Pierre del Fermat, "Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina".

di Alberto Pastore e Fabrizio Iannoni

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