sostenibilità green verde crescita
courtesy of Pixabay
Azioni e comunicazione con un purpose a lungo termine, coinvolgente tutte le funzioni. Il successo sarà di quei brand e aziende veri attori sociali

Si chiama "greenwashing" e si usa per indicare quel sempre più popolare ecologismo o ambientalismo di facciata utile alle aziende per ripulirsi l'immagine pubblica. Allo stato attuale, tuttavia, potremmo chiamare in campo ben più ampi neologismi come il "socialwashing", a indicare tutto quel bel plico di atti di csr che hanno molto a che fare con marketing e comunicazione, anziché con un vero e proprio "purpose" aziendale.

Non stiamo parlando solo di grandi e manifeste forme d'ipocrisia (donare soldi a Save the Children e intanto sfruttare i minori per produrre nei Paesi con manodopera a basso costo, magari parlando intanto di moda sostenibile), ma anche di una certa superficialità che si basa più sul rincorrere i trend di mercato senza validarne la correttezza, anziché sul legare il proprio business a una "responsabilità duratura", coinvolgente tutta la propria filiera e stakeholder. Una menzione in proposito la merita questo pullulare di claim e "falsi miti" della sostenibilità, spesso cavalcati in etichetta o in pubblicità, che però non hanno reale fondamento. Sia l'azienda Refurbed sia Greenpeace, ad esempio, hanno sottolineato recentemente come le tanto decantate bioplastiche siano in realtà biodegradabili solo in ambienti controllati con particolari condizioni di temperatura ed umidità, il che le porta spesso ad essere comunque smaltite in discarica, bruciate o disperse nell’ambiente, provocando gli stessi impatti della plastica tradizionale.

Così facendo, si "suggerisce" al consumatore qualcosa di erroneo, anziché educarlo e spingerlo ad azioni virtuose con del vero marketing sociale. Il tutto, peraltro, con il rischio di ritorsioni in caso di "scoperta", o come minimo di rapida evanescenza di significato all'arrivo del "trend green" successivo.

Non stupisce, allora, che a fronte di tutta questa commistione tra vero e falso, nonché bombardamento di messaggi ambigui, il 67% degli italiani dichiari che trova difficile capire quando un'azienda è veramente responsabile, che il 51% veda negli impegni annunciati solo un modo per "ripulirsi la coscienza" e che il 44% creda che l'unico vero interesse delle imprese oggi sia il profitto. Eppure, gli stessi italiani vedono nelle imprese, più ancora che nel Governo, gli attori che devono promuovere un cambiamento sociale su diversi fronti (dati Ipsos).

La partita del futuro, quindi, si giocherà proprio sul saper fare del civismo una parte integrante del proprio business, che abbia in una comunicazione autentica e accattivante solo l'output finale di un più lungo percorso di investimenti, innovazione, trasformazione etica che parte dall'interno e vede tutte le funzioni e i propri collaboratori allineati sul tema. Le aziende che stanno agendo in tal senso ci sono ed è lecito che prendano le distanze dalle altre. A confermarcelo sono sia i dati menzionati sopra, sia le voci dei protagonisti dell'Osservatorio Civic Brands, un progetto editoriale di Ipsos e del direttore creativo Paolo Iabichino (in arte: Iabicus), nato come "luogo di confronto e stimolo sul ruolo che aziende e marche devono avere nel migliorare la società", spiega il Ceo di Ipsos Nicola Neri.

"Le aziende devono essere consapevoli che affrontare i temi del brand activism e del civismo è una questione profonda, che deve riguardare anche tutte le altre tematiche aziendali. Non parliamo di fuochi di paglia o fuochi di artificio. Questo, lato comunicazione, significherà imparare a correre dei rischi e a non piacere a tutti", sottolinea Iabichino.
"Non bisogna guardare a queste iniziative con l’occhio di chi si attende risultati nel breve periodo: è una maratona che richiede impegno, costanza e un forte credo nei propri valori", ribadisce a sua volta Andrea Fagnoni, chief client officer di Ipsos.

Da dove deve partire il civismo delle marche? Innanzitutto "dall’occuparsi dei propri dipendenti, come confermano le stesse risposte dei consumatori, per poi passare ad ambiente, cultura e a questioni più spigolose come lgbt e parità di genere", evidenzia Francesca Petrella, responsabile comunicazione di Ipsos. Il tutto, però, passando per il coinvolgimento attivo di cittadini e consumatori, nonché occupandosi concretamente della loro prossimità e non pensando solo "in grande".

In questo contesto, in linea con il nostro già enunciato mantra del "nessun brand è un'isola", spazio anche alle partnership, purché si tratti di collaborazioni trasformative e non di comunicazione, come quella in corso dal 2017 tra Rio Mare e Wwf. Il marchio di Bolton Food continua infatti a lavorare per arrivare all'obiettivo di avere il 100% di tonno da pesca sostenibile (oggi 70%).

 

 

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome