Centri commerciali, le nuove piazze medievali

Da “junk spaces” a nuove agorà: gli eventi culturali contribuiscono ad aumentare il valore sociale delle gallerie. (da Mark Up n. 268)

Philippe Daverio è molto legato anche al design e all’architettura. Non deve quindi stupire che la conversazione transiti con disinvoltura dallo specifico arte/pittura ai temi del real estate. In merito al quale, Daverio sottolinea la differenza, in termini concettuali, tra l’accezione americana e quella nostra di architettura.

Qual è la differenza tra real estate e il nostro immobiliare?

Il concetto Usa di real estate è molto simile a un’idea usa e getta del prodotto e dello sviluppo immobiliare. Basta vedere la reazione degli studenti quando guardano il filmato di una demolizione: noi italiani siamo a disagio dopo un quarto d’ora, gli americani si divertono: per loro è uno spettacolo. Per noi italiani l’immobiliare non è solo mera costruzione, nel senso economico e finanziario del termine, ma storia, architettura e stile.

Riguarda anche i centri commerciali?

Negli Usa si rottamano (è il fenomeno del “demalling”) i centri commerciali obsoleti. Ma da noi è cambiato l’approccio culturale verso gli shopping centre.

La definizione di Rem Koolhaas (“junk space”) oggi ha, secondo me, poco senso se considero non pochi dei nostri centri commerciali, che aspirano a diventare luoghi centrali e attrattori sul piano sociale e culturale come le piazze medievali.

La mostra multimediale dedicata a Leonardo e alle sue macchine, al Centro di Arese, ne è una bella prova: un centro commerciale deve diventare un luogo che aggiunge ulteriori e più qualificanti motivi di visita e d’interesse rispetto a quelli originari per i quali è stato concepito e realizzato.

Che cosa rappresenta Il Centro nel futuro sviluppo urbanistico?

L’area di Arese è uno dei casi più importanti, per estensione e qualità del progetto, non solo di riqualificazione, ma anche di trasformazione futura.

Siamo nella rimanenza della cintura di ruggine, con opportunità di trasformazione futura della macro-città: la città di domani non è più limitabile ai confini comunali, alla classica e storica prima o seconda cinta urbana, perché i bisogni s’intrecciano, i consumi sono prodotti da un bacino ben più ampio di quello cittadino: la popolazione residente a Milano (1,2 milioni di contribuenti) paga i costi di gestione anche a favore di una comunità di fruitori e consumatori pari a circa 8 milioni di persone, proprio in virtù di questo meccanismo di integrazione urbana: la politica fa fatica a comprendere questo meccanismo.

Milano aveva, e ha, tante aree urbane da riqualificare.

Certo, se penso alla Bicocca, alle ex Varesine, alla ex Om; ma su alcune scelte non mi sono mai trovato d’accordo: pensi al trasferimento della Fiera a Rho che ha inizialmente fatto temere la morte della fiera cittadina. Per fortuna non è accaduto. Infatti, per gli eventi più elitari, meno di massa, fieramilanocity funziona ancora bene. La moda per esempio non può andare a Rho-Pero. Ma la questione di Rho ha distaccato dalla città le funzioni dei paralleli. Sono cresciuto con il Salone del Mobile, sono fortemente legato al design, e trovo straordinaria questa dialettica tra evento fieristico e mostre nella città.

Ma che cosa deve fare la politica?

Deve offrire le strutture di connessione fra le energie che si sviluppano spontaneamente sul territorio perché nessuno può raggiungere in un unico centro una quota di intelligenza paragonabile a quella raggiunta connettendo migliaia di persone: è a questo aggregato che deve puntare Milano per il suo futuro urbanistico e socio-culturale.

È corretto dire che Milano si è svegliata negli ultimi 15 anni?

Direi di sì, la sveglia l’ha però data Formentini, quand’era sindaco, un momento, forse irripetibile, di genialità anarchica; la sua formazione politica e culturale lo rendevano un borghese internazionale.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome