I nuovi confini del fashion

Uno sguardo al mondo della moda per comprendere lo stato dell’arte e in che direzione sta evolvendo

La moda è un canarino, è quel volatile che i minatori portavano nelle miniere e che, in caso di gas velenosi, con la sua morte rappresentava il momento in cui scappare. Ecco, per l’economia e la cultura del nostro Paese, la moda è proprio questo: un precursore del cambiamento, perché vanta una sensibilità a recepire le trasformazioni, oltre che a ispirarle. A credere in questa metafora sono Riccardo Pozzoli e Giuseppe Stigliano, co-autori con Philip Kotler, del libro Onlife fashion. Li abbiamo incontrati per capire quanto la moda è in grado di leggere il rinnovamento alla luce della pandemia.

Quali fenomeni hanno condizionato l’industria del fashion negli ultimi anni e cosa è cambiato dopo il Covid?

Riccardo Pozzoli (a sinistra) e Giuseppe Stigliano co-autori con Philip Kotler di “Onlife fashion”

Stigliano: La pandemia ha cambiato le regole del gioco in molti settori, portando anche nella moda importanti trasformazioni. Nel mondo del fashion, inteso come settore della moda high-end (haute couture e luxury fashion, ndr), nel periodo pre Covid avevamo individuato cinque forze che hanno continuato a influenzare questa industry anche post pandemia: accelerazione, intesa come velocità portata dalla trasformazione digitale ma anche per effetto di micro forze all’interno dell’industry; ibridazione, ovvero considerare un nuovo equilibrio tra offline -dove lo store è il tempio del brand- e online valutando se è necessario essere su tutti i touch point digitali o solo su alcuni; disintermediazione, grazie al digitale che permette di saltare alcuni intermediari avendo un dialogo diretto con il cliente finale; sostenibilità, quindi la maturazione da parte di molte imprese di come fare a considerare la sostenibilità in un settore ipersegmentato e con quali ritorni economici; democratizzazione, del desiderio di lusso che appare molto più accessibile anche se in realtà non lo è concretamente.
Pozzoli: La pandemia è stata una curva esponenziale per alcune di queste forze, come l’ibridazione, la digitalizzazione e la democratizzazione. Molto, però, è dipeso dal mindset delle imprese antecedente il Covid. Chi non era preparato per la digitalizzazione o la disintermediazione si è visto sottrarre fette di mercato da player di nuova generazione già pronti a distribuire nella maniera corretta, a costruire una relazione differente con il consumatore, aldilà della presenza fisica con la capacità di saperlo intrattenere e servire digitalmente. Penso, comunque, che nei prossimi anni torneremo a uno scenario non particolarmente diverso rispetto a quello pre Covid: semplicemente c’è stata una accelerazione di alcuni fenomeni che diversamente avremmo visto magari tra cinque anni. La sostenibilità, per esempio, era un tema cruciale prima della pandemia e successivamente ci siamo resi conto, dopo una serie di riflessioni, che è ancora più importante.

Il fashion marketing riesce a stare al passo con la velocità del cambiamento?
Stigliano: No, il marketing non riesce perché le aspettative delle persone evolvono più della capacità delle aziende di innovare. Le faccio un esempio: le persone hanno uno smartphone, scaricano un’app di un nuovo social media come Clubhouse e vi “entrano”. Quando hanno già digerito il fenomeno, le aziende stanno ancora cercando di capire quali strategie poter utilizzare per quel social. Questo perché nelle aziende le strategie di marketing subiscono tanti passaggi fino, a volte, a essere stravolte -approccio waterfall- o a essere obsolescenti. Nel segmento high-end, non credo più al marketing inteso come making people want things, dovrebbe essere making things people want ovvero ascoltare la rete, interpretare i trend, anticiparli, essere quel canarino che intercetta le tendenze e magari contamina altri settori. Il marketing tradizionale nel settore fashion, svolto con ricerche di mercato che definiscono i segmenti di target in base a criteri socio-demografici, segmentano e decidono quali prodotti imporre con un battage mediatico, secondo me non tiene più il passo e forse non è mai esistito …
Pozzoli: Paradossalmente, nel mondo della moda, il marketing, nel senso tradizionale del termine, è presente più oggi che anni fa. In passato la moda era fatta da persone visionarie che avevano una sensibilità verso il mercato ed erano talmente avanti che riuscivano a prevedere ben prima che il mercato comprendesse ciò che sarebbe piaciuto. Questo approccio oggi si è perso: negli ultimi 15-20 anni della storia del consumismo ci siamo spostati dal concetto di top down, dove delle élite di visionari definiscono qualcosa e lo impongono al mondo, a un concetto di consumismo orizzontale, dove impera la condivisione. È frutto dei social dove, per essere rilevanti, si fa quello che piace al proprio pubblico. Qual è il giusto equilibrio tra continuare a dettare i trend provando a intuirli e ascoltare il pubblico? Rispondere a questa domanda sarà una delle grandi sfide della moda nei prossimi anni. Anche se occorre ricordare che la moda e il lusso non possono esclusivamente inseguire i trend dettati dal mercato, questo fenomeno è l’antitesi del concetto di lusso.

Nel consumismo orizzontale le dinamiche di intermediazione cambiano. I neo-intermediari sono gli influencer. E in futuro?
Pozzoli
: Gli influencer sono i conseiller del futuro e allo stesso tempo rappresentano quello che da sempre simboleggiano i fashion magazine per il mondo della moda. Instagram, per esempio, ha inserito la funzionalità checkout con la quale ogni influencer può taggare dei prodotti e venderli direttamente. Paradossalmente per trovare dei prodotti à la page non devo più recarmi da Colette a Parigi, basta aprire l’account Instagram dell’influencer più trendy, guardare i suoi look e acquistare direttamente i prodotti senza nemmeno abbandonare il suo profilo social. Sono un nuovo media, un nuovo modo di raccontare e arrivare alla gente, che ha subito nel tempo delle trasformazioni: 10 anni fa c’erano i fashion blogger, oggi ci sono le super celebrities che raccontano della famiglia, dei figli, del cane, ecc., domani saranno i brand a essere influencer. Pensiamo a Chanel che ha oltre 45 milioni di follower su Instagram: è chiaro che non ha bisogno di influencer per comunicare al proprio pubblico, anzi sono gli influencer che vorrebbero essere condivisi da Chanel. Un cambio di paradigma …
Stigliano: È difficile pensare che spariranno formule come gli influencer nella misura in cui il loro lavoro è quello di essere una scorciatoia sia per i brand che hanno bisogno di arrivare a grandi numeri sia per le persone che vogliono scegliere cosa comprare in un contesto dove l’offerta è superiore alla domanda. In un mercato affollato, avremo sempre bisogno di curatori.

Esistono modelli di business efficaci nella moda oppure occorre crearne di nuovi?
Pozzoli: I modelli di business degli ultimi 40 anni non sono più attuali. Nel mondo della moda le strategie non possono più avere un focus sul prodotto, bensì di contenuto. Aldilà dei brand che hanno puntato su un posizionamento di esclusività, tutti gli altri dovranno reinventare il proprio modello di business guardando a community di virtual reality dove, corrispondendo una fee di ingresso, alla base ci saranno le esperienze. Le persone vorranno far parte di comunità virtuali dove sarà possibile leggere il magazine di un brand o guardare video esclusivi realizzati dalla media house di una marca. Del resto, il mondo della moda e del lusso ha dei brand nei quali la gente si vuole rispecchiare.
Stigliano: Questo potrà impattare su altri settori influenzando lo sviluppo di servizi attorno ai prodotti per far vivere una esperienza end to end.

 

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome