Podcast: Dl 198, cosa cambia negli accordi agroalimentari

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Forma scritta e contenuto minimo: con gli avvocati Taurini e Bugli parliamo delle nuove regole e relative sanzioni contenute nel decreto legislativo 198

Il decreto legislativo 198, che ha recepito la direttiva europea sulle pratiche sleali, entrato in vigore lo scorso 15 dicembre e che abbiamo trattato in due podcast focalizzati sulle novità nei ritardi dei pagamenti, pone l'attenzione sulla forma dei contratti tra le imprese che commercializzano prodotti agricoli e alimentari. Ne parliamo in questa nuova puntata del podcast Il legale risolve con gli avvocati Stefano Taurini e Alessandro Bugli dello studio THMR.

di Stefano Taurini e Alessandro Bugli

Il decreto conferma la regola – già presente nella normativa precedentemente in vigore (art. 62 D.L. 24 gennaio 2012 n. 1) – secondo la quale i contratti aventi ad oggetto la cessione di prodotti agricoli ed alimentari tra le imprese della filiera devono essere conclusi obbligatoriamente in forma scritta.

La disposizione trova immediata spiegazione nella volontà del legislatore di migliorare la qualità delle relazioni tra le imprese del settore, rimuovendo le zone d’ombra nelle quali gli accordi non sono precisamente definiti e con maggior facilità si possono quindi generare conflitti tra le parti ed occasioni di abuso da parte dei contraenti più forti.

Al fornitore ed all’acquirente si chiede dunque di formalizzare le loro intese in un contratto scambiato in forma cartacea o elettronica (con l’avvertenza, che riteniamo senz’altro opportuna in questo secondo caso, di utilizzare la Pec, per evitare le contestazioni che potrebbero derivare dall’impiego della mail ordinaria).

I sei elementi indispensabili da inserire nel contratto

L’art. 3.2 del decreto non si limita però ad imporre la redazione di un documento scritto, ma si spinge sino al punto di indicare il contenuto minimo del contratto, nel quale devono essere presenti i sei elementi considerati indispensabili per una completa regolamentazione contrattuale, e dunque: la durata, le quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo (che può essere fisso o determinabile sulla base di criteri stabiliti nel contratto), le modalità di consegna e di pagamento.

Nello schema contrattuale di base, dunque, il legislatore prevede che le parti sottoscrivano un documento nel quale siano riportati tutti i dati elencati nella norma.

Sappiamo tuttavia che frequentemente che l’accordo di fornitura stipulato tra il fornitore e l’acquirente risulta non da un solo testo, ma da una pluralità di documenti distinti.  Questa possibilità è dunque espressamente considerata nel testo di legge, nel cui art. 3.3 si legge che l’obbligo della forma scritta può essere assolto con “forme equipollenti”, vale a dire scrivendo parte del contenuto contrattuale nei documenti di trasporto o di consegna, nelle fatture e negli ordini di acquisto.

Si tratta evidentemente di una facilitazione accordata agli operatori, in quanto ai richiamati documenti (formati da una sola delle due parti) viene riconosciuto lo stesso valore che spetta al contratto sottoscritto da entrambi i contraenti.

La norma dice però che il ricorso a queste “forme equipollenti” è consentita “a condizione che gli elementi contrattuali di cui ai commi 1 e 2 siano concordati tra acquirente e fornitore mediante accordo quadro”.   Il senso da riconoscere a questa disposizione – superando l’infelice formulazione scelta dal legislatore – sembra essere questo: stipulando per iscritto un accordo quadro (che, lo ricordiamo, è la convenzione che formalizza il contenuto di tutti i contratti di cessione che saranno conclusi in un certo periodo), le parti possono fare rinvio, per le parti non ancora disciplinate, ai detti documenti “equipollenti”.

Esemplificando: per l’indicazione delle quantità di prodotto oggetto della singola cessione, il contratto quadro potrà fare rinvio al successivo “ordine di acquisto” formato dall’acquirente.

Le sanzioni previste se non si rispetta la regola della forma scritta

C’è naturalmente da chiedersi quali siano le sanzioni: cosa accade se, in violazione della regola, il venditore e l’acquirente stipulano il contratto di cessione solo in forma verbale?

Il decreto 198 prevede in questo caso che ai soggetti responsabili possa essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra 2000 euro ed un importo corrispondente al 5% del fatturato realizzato dal responsabile nell’ultimo esercizio. La concreta determinazione della sanzione è rimessa all’ICQRF (ente designato come Autorità competente), che a questo fine terrà conto del valore dei beni oggetto della cessione o del valore del contratto.

Più difficile dire se la mancata adozione della forma scritta incida o meno anche sulla validità del contratto. E cioè: il contratto concluso in forma verbale è valido o no? Per quanto la norma sia perentoria (affermando che i contratto “sono conclusi obbligatoriamente per iscritto”) sono dell’opinione che il contratto verbale non sia nullo. Nel decreto 198 si prevede infatti che ogni contraente sia tenuto, se richiesto, “a confermare per iscritto le condizioni di un contratto di cessione in essere”.

Se anche prima di essere confermato per iscritto il contratto esiste (la norma dice: contratto “in essere”) significa che anche l’accordo meramente verbale è stato sufficiente.

Aldilà di questa considerazione interpretativa, resta però la necessità di tutti gli operatori di rispettare puntualmente regola che impone l’adozione della forma scritta, essendo certo che la sua violazione non solo genera incertezza nella disciplina contrattuale, ma comporta i rischio delle elevate sanzioni sopra richiamate.

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