Ageismo: sul lavoro la prima causa di discriminazione è l’età

Seguono il genere e il backgroung culturale secondo un'indagine europea di PageGroup. Dominante anche il tema del "code switching"

Anche la temutissima regina della moda Miranda Priestly (Meryl Streep) nel film "Il diavolo veste Prada" rischia di essere sostituita da una più giovane direttrice editoriale, salvo riuscire a spuntarla grazie alle sue abili doti...politiche? Manipolatorie? Se si trattasse di un uomo, forse, diremmo semplicemente "in gamba". Il personaggio ispirato alla celebre Anna Wintour, direttrice di Vogue America ancora in carica a 73 anni, è un colorito punto di partenza per riflettere sul cosiddetto ageismo (in inglese ageism), ovvero la discriminazione basata sull'età che più spesso si riferisce ai senior (si pensi anche agli stereotipi della comunicazione per questo target) ma che riguarda anche i giovani.
Secondo un'indagine condotta a livello europeo da PageGroup su un campione di circa 5.000 intervistati, il 51% ha dichiarato di aver subìto discriminazioni sul posto di lavoro una o più volte negli ultimi 12 mesi. Uno su sei (il 18%), inoltre, ritiene di essere discriminato “spesso” o “sempre”, mentre il 33% subisce episodi occasionali. I motivi? L’età è risultata la causa più comune di discriminazione (34%), seguita dal genere (23%) e dal background culturale (22%). Un fattore, quest'ultimo, poco citato nel dibattito collettivo e dai media, ma che ben esiste e resiste nel tempo. Va da sé che, le persone con più di una caratteristica oggetto di discriminazione siano ulteriormente penalizzate (la donna senior proveniente da un ceto sociale basso, l'over 50 con radici straniere e così via). Inoltre, con l'aumento dell'anzianità, e del relativo ageismo, aumenta anche la prevalenza della discriminazione di genere. Il 31% dei dipendenti in posizioni di leadership dichiara di subirla, rispetto al 21% dei lavoratori di livello non dirigenziale. Non solo: 4 lavoratori su 10 di età superiore ai 50 anni (il 41% per la precisione) hanno dichiarato di essere stati discriminati in base all’età negli ultimi 12 mesi.

Tutto questo è un ostacolo significativo sia per l'equo accesso a posizioni adeguate a livello professionale, sia per la crescita e la permanenza all'interno dell'azienda. Quest'ultima, dal canto suo, perde così una marea di potenziali e valide risorse, restando ancorata a una mentalità ristretta e provinciale che certo non ne favorisce lo spirito innovativo e il successo nel lungo termine. Tra l'altro, nel complesso, 2 intervistati su 3 hanno dichiarato di non sentirsi completamente loro stessi quando sono in ufficio e per questo cercano di adattare il proprio stile linguistico, l'aspetto, il comportamento e le modalità espressive per provare a ridurre al minimo le differenze con il resto del team. Si tratta di un "code switching" che, se in parte può essere adeguato all'ambiente professionale, se portato oltre un certo limite trasforma il luogo di lavoro in una sorta di "caserma dell'omologazione", dove il clima interno non è certo favorevole allo scambio di idee, punti di vista, talenti e tutto ciò che è linfa vitale di un'impresa sana.
A prescindere dal tipo di discriminazione cui si fa riferimento, infine, vale sempre la pena ricordare che nella società non esistono reali compartimenti stagni e che, quello che tocca un gruppo di persone, prima o poi arriva ad influenzarne anche altri. La discriminazione di uno deve quindi essere sempre la lotta di tutti, o si scivola nel paradosso di portare avanti la propria battaglia in modo, appunto, discriminante (stile "donne contro uomini", per intenderci).

 

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