Autenticità italiane, un patrimonio da rilanciare

di Alessandro Battaglia Parodi

Negli ultimi anni si è fatto tanto per spingere i prodotti alimentari italiani su tutte le piazze internazionali. Uno sforzo che ha comportato spesso un cambiamento di mentalità negli operatori, ora più aggiornati rispetto alle normative degli altri Paesi ma anche più attenti alle leve da utilizzare per approdare su mercati anche molto lontani. Il business dell’export alimentare è infatti ghiottissimo, perché i prodotti della nostra cucina hanno un ottimo appeal su tutte le tavole internazionali. Un merito che è da attribuire all’autenticità italiana, intesa come quel mix di storia, arte e ambiente che ha sempre attirato l’attenzione estera per il suo vastissimo patrimonio di culture e di “pratiche” culinarie, in grado di coniugare le tradizioni del territorio italiano con l’innovazione, in un secolare rinforzo reciproco. Un processo virtuoso iniziato ben prima del Grand Tour e che sta facendo viaggiare, questa volta, il meglio dell’italianità in giro per il mondo.
Ma accanto a questo business “buono, pulito e giusto” c’è anche quello irregolare dei prodotti contraffatti o di quelli che hanno un richiamo diretto a un’italianità soltanto presunta. Un fenomeno che presenta un’articolazione del mercato anche molto complessa e che ha ormai assunto dimensioni globali, andando così a incidere negativamente su un settore della nostra economia che avrebbe enormi potenzialità di crescita.

Il ruolo dell’origine Quando si parla di “made in Italy” in ambito agroalimentare è quasi impossibile sottrarsi ad alcune perplessità. I nostri prodotti sono certamente riconducibili a produzioni tipiche del nostro Paese, ma capita assai spesso che l’origine delle materie prime non sia l’Italia. Mentre qui da noi avviene più frequentemente la trasformazione di materie importate in quantità anche massicce, basti pensare alla pasta o all’olio d’oliva.
Difficile allora riuscire a dare una definizione di made in Italy senza fare ricorso al ruolo delle maestranze, a un saper fare legato ad antiche tradizioni territoriali o a una particolare specializzazione produttiva. Stiamo parlando ovviamente dell’industria della trasformazione, che utilizza come materia prima sia i prodotti nazionali sia quelli provenenti dall’estero, in uno scambio dinamico di risorse e nozioni, a volte arcaico, che ha permesso alla filiera del made in Italy di diventare famosa e distintiva per alcune peculiarità regionali o locali. Un esempio chiarissimo di questo concetto è la bresaola della Valtellina, salume a Indicazione geografica protetta (Igp), ottenuto da carne di manzo, salata e stagionata: la bresaola viene trasformata nella tradizionale zona di produzione della provincia di Sondrio, ma le carni utilizzate sono d’importazione al 99%, e provengono principalmente dall’Argentina e dal Brasile. Il marchio Igp assicura che una fase importante della lavorazione sia avvenuta in un’area geografica ben delimitata e che il prodotto sia stato sottoposto a precisi controlli. Ma non obbliga i produttori a dichiarare la provenienza della materia prima, cosa che invece avviene con la Denominazione di origine protetta (Dop).

Materia prima trasformata. Anche la pasta italiana, intollerabile stereotipo per alcuni, orgoglio nazionale per altri, ricade in queste stesse logiche “trasformative” dell’industria. Siamo infatti il primo produttore mondiale di pasta secca, uno degli alimenti che incarna maggiormente lo spirito e i principi della dieta mediterranea. Ma il grano per produrla lo facciamo arrivare dall’estero, principalmente Canada e Messico. Altro esempio prestigioso di un’insuperabile autenticità italiana è rappresentato dal caffè: non ci sono mai state piantagioni nella terra di Pellegrino Artusi, grande estimatore della varietà Mokha, eppure i nostri brand nazionali hanno saputo creare nel tempo la tradizione del “caffè espresso” esportandola con successo in tutto il mondo. Per non parlare poi del cioccolato, dolce ambasciatore del made in Italy, realizzato solo con purissimo cacao centroamericano. Molto spesso, però, si importa materia prima dall’estero semplicemente per pagarla di meno rispetto al prodotto interno, finendo così per creare una vera e propria azione di dumping sulle produzioni nostrane, scoraggiandone le potenzialità. Accanto a prodotti d’eccellenza ottenuti dalla trasformazione di materie prime estere ci sono poi anche tanti altri esempi in cui l’origine del “raw material” può a buon diritto onorarsi del tricolore. E spesso si tratta proprio di quei prodotti tipici che potrebbero approcciare con grande successo i mercati esteri. Occorre ricordare che l’Italia conta il maggior numero di denominazioni protette in ambito europeo, a dimostrazione della ricchezza della sua cultura gastronomica e dell’altissima qualità delle materie prime impiegate. È allora sul piano della tutela dell’origine geografica di questi prodotti che si gioca gran parte dello sviluppo del made in Italy agroalimentare fuori dai nostri confini.

Atti di concorrenza sleale. Il legame tra prodotti e territori d’origine è sempre stato uno dei punti di maggior presa per conferire ai beni del sistema agroalimentare italiano una precisa riconoscibilità all’estero. Ebbene, poiché la sfida attuale consiste nella diffusione delle nostre eccellenze oltre confine, occorre domandarsi come vengano tutelate le produzioni made in Italy in ambito comunitario e globale. Non solo, occorre anche chiedersi se le promesse e le garanzie di bontà, sicurezza e salubrità alimentare, così certificate e decantate in terra patria, vengano poi mantenute su tutte le piazze internazionali.
Da Paese a Paese le norme di vigilanza non sono infatti mai le stesse e l’azione di intervento degli organismi preposti alla tutela dei nostri prodotti nulla può di fronte alla mancanza di accordi bilaterali o all’assenza della semplice volontà di collaborare. L’esempio più eclatante in questo senso arriva da un grande Paese del Commonwealth e non certo da una sperduta landa siberiana. In Canada l’uso dell’indicazione geografica “Parma” non è giudicato illegittimo. Anzi, fino allo scorso anno era illegale importare qui, con il suo vero nome, il nostro glorioso “Prosciutto di Parma”. Il marchio “Parma”, precedentemente registrato da una società canadese, imponeva al nostro principale portavoce nazionale l’utilizzo di un nome mortificante, quello di “original Prosciutto”. Ragion per cui il consumatore canadese si trovava di fronte a due qualità apparentemente simili ma dal prezzo decisamente differente. Questa situazione di doppia legalità e di concorrenza sleale si è protratta per ben quindici anni, tra azioni giudiziarie e ricorsi, fino a quando, a fine 2013, un accordo bilaterale tra Ue e Canada ha permesso la progressiva coesistenza delle denominazioni “Prosciutto di Parma” e “Parma”, detenuto dall’azienda canadese Maple Leaf Foods. Un risultato che non rispecchia assolutamente quanto auspicava il consorzio parmense, ovvero la cancellazione del marchio canadese, ma che fornisce l’idea di quanta strada in salita occorra ancora percorrere per tutelare le nostre denominazioni d’origine.

La contraffazione alimentare. È chiaro che per guadagnare posizioni di presidio su nuovi mercati e rafforzare la competitività in quelli già acquisiti bisognerebbe che l’azione di tutela si svolgesse su più livelli di intervento, dalla distribuzione multicanale (quindi anche sul web), alla corretta informazione di prodotto su dimensioni globali, con una sorveglianza speciale per quanto riguarda il pericoloso fenomeno dell’italian sounding. Una lotta impari, che si sta comunque cercando di contrastare attraverso il nuovo Regolamento Ue 1151/2012 sui “regimi di qualità dei prodotti agricoli conosciuto come “Pacchetto Qualità”, e anche tramite accordi bilaterali tra Unione Europea e Paesi come Usa, Giappone ecc. Un impegno che vede in prima fila, fra tutti, l’Ispettorato repressione frodi - Icqrf del Mipaaf e che sta portando a maturazione i primi frutti.
E dal momento che le buone idee, quando entrano in circolo, si propagano in maniera inarrestabile, si susseguono anche nuove iniziative in materia di lotta alle frodi e anticontraffazioni con l’obiettivo di difendere con maggiore incisività l’italianità nel mondo. L’ultima in ordine di tempo (meno di un mese fa) riguarda l’istituzione di una commissione di studio sulla criminalità agroalimentare su proposta del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il gruppo di lavoro sarà guidato dall’ex procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, che attualmente presiede il Comitato Scientifico dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare.

La narrazione del cibo. Sul versante del marketing la ricetta vincente è senz’altro la “narrazione” del cibo. Essendo il cibo per sua natura un grande comunicatore, è facile immaginare come si siano potuti generare nel tempo dei legami fortissimi tra le autenticità del territorio e la cultura, l’arte o l’economia. Questo meccanismo è stato sempre impiegato in tutte le nostre produzioni di qualità, anche quelle più semplici e comuni. Un esempio di ciò è la fortunata e recente ascesa del pomodoro Pachino nel ranking mondiale degli ortaggi tipici, avvenuta quando, intorno agli anni Settanta, alcune aziende locali ebbero la semplicissima idea di stampare il nome Pachino sulle cassette di legno che contenevano il prodotto. Da quel momento il consumatore cominciò ad associare le distintive caratteristiche del pomodoro a quel nome, decretando il progressivo successo di un consorzio che oggi conta 5mila operatori sul territorio siracusano. Una cosa sfugge del tutto a noi italiani: nell’immaginario collettivo internazionale il cibo e le autenticità nostrane vengono percepiti (e spesso presentati) come doni di una natura sovrabbondante e generosa più che come esiti di un faticoso e secolare lavoro sui territori e sui processi produttivi. Ecco perché occorre raccontare un’altra storia. Fatta, questa volta, di tanta innovazione e dell’abilità di coniugare la creatività con la tradizione.

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