Intervista esclusiva a Philip Kotler

Intervista di copertina – Il padre del marketing strategico riflette su organizzazione e strategie in ambiti economici caratterizzati da discontinuità. (Da MARK UP 181)

L'Atteggiamento reverenziale nei suoi confronti resta intatto. Manager di varie generazioni hanno studiato sui suoi libri e fatto proprie molte delle sue intuizioni: e non hanno mancato di seguirne attentamente il seminario milanese organizzato da Hsm Italia. Guardandoli, così numerosi, non possono esserci dubbi sul fatto che a tutt'oggi il professor Philip Kotler, classe 1931, sia un padre riconosciuto e rispettato del marketing strategico a livello mondiale.

Lui peraltro non ci ricama sopra: non capisce come possano chiedergli autografi su volumi editi alla fine degli anni '60. Li invita con fermezza ad aggiornare le proprie letture, poiché tanta acqua sta passando sotto i ponti.

MARK UP lo incontra per la seconda volta - a nove anni di distanza (si veda MARK UP n. 68 a pag. 166) - a Milano, dove raccoglie la testimonianza, ospite della sua lezione al World Marketing and Sales Forum.

Professor Kotler, la sua ultima pubblicazione letteraria, disponibile nel mercato italiano da qualche settimana, s'intitola Chaotics - Gestione e marketing nell'era della turbolenza. Deve essere considerato il suo contributo analitico alla crisi attuale?

La turbolenza non c'entra con la recessione. Non è suo sinonimo. Con il primo termine intendo quell'insieme di vibrazioni, disturbi e rotture frequenti, quella composizione di variabili che possono investire qualsiasi impresa in modo improvviso e veloce, costringendola a decisioni tempestive e immediate. Tali variabili permeano ora la recessione allo stesso modo. La crisi di oggi è, infatti, inserita in un'epoca di normalità nuova - turbolenta, appunto - la cui caratteristica è data da una sequenza continua di scosse. Che hanno sostituito la vecchia curva del ciclo economico. Globalizzazione e digitalizzazione ci hanno traghettato in questa fase nuova nella quale imprevedibilità e inarrestabilità diventano, a vari livelli, una variabile essenziale.

Che cosa fare in una recessione turbolenta?
L'immobilismo non paga. E neppure l'improvvisazione. È importante potersi avvalere di strumenti e metodi di valutazione in grado di inquadrare correttamente il profilo strategico dell'impresa. Perché le risposte non possono essere universali. Chi può contare su assetti finanziari saldi, ma intravvede criticità di marketing, deve investire: in personale interno e portandosi in casa brand forti. Al contrario, chi tiene bene il mercato, ma non ha i conti in ordine, è chiamato a rinegoziazioni, miglioramenti di processo, contenimento dei costi. Chi si sente forte acceleri, tramite acquisizioni e nuovi budget di marketing. Chi sa di essere debole lo riconosca: dismetta e salvi il possibile.

Professore, provi ad allargare il quadro…

L'impresa faccia conto di giocare su tre tavoli contemporaneamente. Il primo è quello che abbiamo visto: la gestione del presente. Che poi significa tagliare il superfluo, abbandonare prodotti-segmenti-gruppi di consumatori-aree geografiche non profittevoli, ridarsi una dimensione corretta. Il secondo tavolo è più difficile: si seleziona la presa di distanza progressiva dal passato. Opportunità e cambiamenti non lineari stanno davanti, non alle spalle: si lavora oggi ai prodotti di domani.

Il terzo tavolo?

Sviluppare un vero grande obiettivo strategico inedito. Che dia la direzione, la motivazione, il senso della sfida. Il problema è che, in certe imprese, non risulta neppure più chiaro perché stanno in affari.

E una volta usciti dalla recessione, i protagonisti del mercato si ritroveranno in piena turbolenza, è così?
Sinceramente non saprei dire se la ripresa sarà lenta o veloce. Sono convinto, però, che un'impresa con le idee chiare debba avere a disposizione una pipeline di idee, prodotti e prototipi cui mettere mano quando arriverà il momento giusto. La risposta deve essere già pronta adesso. Tornando alla domanda, se non vogliamo chiamarla turbolenza chiamiamola pure discontinuità. I fattori di instabilità continueranno a stare sul tappeto: potere del consumatore, globalizzazione, Cindia, regionalizzazione, deregulation, privatizzazioni, internet, tecnologie, convergenza digitale, cicli di vita minimali, rotture e fughe in avanti. In ogni laboratorio può nascere qualcosa o qualcuno in grado di superare all'istante imprese ed, eventualmente, interi comparti economici.

Cosa serve all'imprenditore, fortuna?

No, occorre conoscenza. Se il caos è una costante, la normalità si otterrà a un livello di caos appena inferiore all'indice di sostenibilità. Il punto di rottura si evidenzierà nel momento in cui la strategia impostata non sarà più valida. La nuova sostenibilità si riottiene a correttivo adottato. Se l'impresa, allora, si dota di un business intelligence system può raccogliere un numero di dati sufficienti per tenere sotto controllo tutto: competitor, prodotti, prezzi, canali, servizi, cambiamenti, necessità. O meglio, può illudersi di poter controllare.

È solo un'illusione, professore?

Fare il check di ogni cosa è un obbligo, riuscirci è un'illusione. Perché in quello che chiamo chaotics continuum c'è una parte di turbolenze prevedibili e una parte che non lo è. La rottura è improvvisa, può essere sorprendente, ma non deve cogliere di sorpresa.

In che senso?

È sorprendente per contenuti, modalità di rottura, conseguenze e impatto. Eppure non è inattesa, visto che la company moderna si appoggia a early warning systems, che raccolgono quotidianamente segnali deboli provando a decodificarli: principalmente nei 5-6 comparti economici contigui, ma anche nel sociale.

Facciamo un esempio. È un pomeriggio qualsiasi e si delinea un elemento di discontinuità forte…

Il Ceo deve essere sempre raggiungibile. Durante la scossa possono emergere minacce o opportunità per l'azienda e la valutazione strategica di questo aspetto, nella risposta da dare, deve essere ben presente. Oggi rispetto a ieri il business plan è archiviato; l'impresa lavora sulla definizione di un certo numero di scenari-chiave, almeno tre (il peggio, il meglio e l'imprevisto), con altrettante strategie di risposta. Non si tratta di costruirli su chiavi probabilistiche, perché sono possibili alla stessa maniera e devono essere definiti in modo preciso parallelamente. È nel momento della selezione strategica di reazione che il top management deve poter attingere da ciascuno scenario con la massima flessibilità.

Lei condivide quello che Alan G. Lafley, numero uno uscente di P&G, scrive a proposito del chief executive?
Sì, concordo sul fatto che il Ceo non sia un allenatore, ma il collegamento primario fra mondo interno ed esterno, al quale spetta il compito di individuare chi e cosa all'esterno conti per l'impresa; con il giudizio finale su quali aree di business sviluppare e quali no. Così come sul ruolo chiave nel bilanciare presente e futuro e nel definire lo sviluppo della cultura di business nell'impresa.

Secondo il suo pensiero, professore, il Ceo risulta fondamentale anche per l'evoluzione di un nuovo manager, il chief marketing officer…

Il Cmo è una figura rara, ma già presente in alcune aziende. Essendo fondamentale nella definizione delle strategie d'impresa, non è un ruolo da banalizzare. All'interno delle società che negli ultimi decenni si sono orientate al marketing, si sono consolidate almeno 4 visioni di marketing differenti, incarnate da altrettante tipologie di capi d'azienda. C'è chi lo considera comunicazione (1P), chi ne allarga la portata di supporto (4P), chi ne considera la valenza strategica di individuazione (segmentazione, targeting, posizionamento) e chi, infine, lo considera la pietra angolare: marketing is everything. Ecco, il Cmo consolida quest'ultima vision oppure traghetta un'azienda dalla terza alla quarta. Indubbiamente le sue potenzialità dipendono molto dalle convinzioni del Ceo.

Quali risultati deve raggiungere questo direttore marketing strategico?

Deve essere il cliente in azienda, promotore di uno sviluppo a forte orientamento verso il consumatore; tenere costantemente monitorati i mercati di riferimento e i punti di vista dei consumatori; favorire la crescita del corporate brand e del brand portfolio; spingere lo sviluppo di tecnologie di marketing e formazione; facilitare le sinergie fra le varie divisioni aziendali. C'è poi un versante di grande importanza, spesso trascurato: gli competono misurazione delle prestazioni finanziarie del marketing e loro valorizzazione.

Al di là delle convinzioni dei vertici aziendali, probabilmente ci sono anche dei limiti di preparazione, no?

È ovvio che singole specializzazioni possono essere ricoperte da persone differenti appartenenti al marketing team. Altrettanto vero è che l'area di marketing oggi non può prescindere da aggiornate e profonde conoscenze nell'ambito dei digital media. Ma non solo: la ricerca deve essere allargata a discipline nuove quali antropologia, neurologia, etnografia. Occorre portare le videocamere digitali dagli scaffali dei punti di vendita agli ambienti domestici, per guardare e capire come si comporta il cittadino. Bisogna aggiornare l'intervento creativo. Ed è necessario sviluppare una conoscenza delle dinamiche finanziarie tale per cui si riesce a reggere il confronto con i propri capi d'azienda e con le loro preoccupazioni.

Lei ipotizza specializzazioni e ruoli chiave all'interno del marketing team. È ancora attuale il giardiniere?

La focalizzazione sui clienti esistenti e la coltivazione di relazioni forti con i clienti a maggior potenziale resta ovviamente una capacità di elevato valore in ogni squadra di marketing, più dell'attrazione di clienti nuovi. In tal senso il giardiniere resta davanti al cacciatore. Un nuovo ruolo chiave, a mio parere di fondamentale importanza, è ora quello del digital native, dell'indigeno digitale. Credo che ogni azienda abbia il dovere di affiancare i propri manager con professionisti di questa matrice, investendo sulle loro sperimentazioni e seguendo le loro intuizioni.

C'è un trend alla riduzione dei prodotti: un bene, un male?

Il consumatore riduce lo scontrino, pospone determinati acquisti, rimpiazza national brand con store brand. Logico che anche gli assortimenti si riducano e logica vorrebbe che l'industria si applicasse in tagli a referenze e categorie di minor soddisfazione. Eppure stretching ed extension le risultano più… facili. È, forse, il caso di disciplinare meglio i volumi d'ingresso, facendo selezione.

Forse anche il marketing dovrebbe disciplinarsi meglio?
Certamente negli anni alcune politiche commerciali estremamente aggressive hanno trovato supporto nel marketing. Imprese responsabili e sostenibili non possono prescindere dall'adottare un marketing responsabile che divenga modello di riferimento.

Sul versante degli store brand che livelli di marketing vede?

Beh, retailer che in maniera precisa raccolgano informazioni e dati, impegnandosi a costruire comunità delineate secondo criteri e abitudini di acquisto peculiari, non ottengono soltanto benefit immediati, ma ne generano altri. Viene data l'opportunità di teatralizzare gli spazi a scaffale, incrementando il livello emotivo della permanenza nel negozio. Risulta possibile intercettare in anticipo il delinearsi di possibili problemi, lanciando delle soluzioni. Tutto ciò pone oltretutto queste catene all'avanguardia, con elevati riconoscimenti d'innovazione percepita, anche perché non si tratta di applicazioni e focalizzazioni generalizzate. Mi sembrano ancora casi isolati.

In generale: tagliare i prezzi è una necessità?

Solo per chi non è in grado di dimostrare la superiorità del proprio prezzo. Se un'azienda può trovare altre motivazioni di valore per convincere all'acquisto il problema non si pone. I consumatori si spostano, ma non sempre si generano situazioni che possono essere risolte con tagli del 20%. Vanno selezionate le aree d'intervento: a determinate condizioni anche la promozione è una buona leva, se intercetta chi è alla ricerca di un buon affare.

La comunicazione è davvero cambiata in profondità?

Il destinatario della comunicazione non è più quello di prima. Il consumatore ha conquistato potere, ha sfruttato le occasioni che si sono create con i media digitali per generare e alimentare circuiti di opinione autonomi su prodotti, marche e imprese. La reputazione oggi incide sulle decisioni di acquisto e si muove sui canali del sentito dire, del passaparola e dei luoghi d'incontro. In una situazione così evoluta l'advertising non è più la soluzione per ogni problema. Torna utile, per esempio, se passiamo da una persuasione in termini di migliore prestazione nel mercato alla costruzione di un'emozione. E il lavoro del comunicatore è cambiato laddove non si tratta più di individuare target specifici e di raggiungerli mediante messaggi mirati, quanto di riuscire a leggere i sensi di appartenenza che stanno alla base delle tribù, di riuscire a farne parte, di crearne nuove.

In conclusione, professore: da chi e dove trarre indicazioni utili?

Molte delle imprese non arrivano a compiere 30 anni. Guardando alle società ultrasecolari si scorgono tratti comuni, per esempio nella valorizzazione delle persone. Quelli sono elementi importanti. Il professor Raj Sisodia, da parte sua, nel 2007 ha raggruppato 30 corporate brand la cui scomparsa causerebbe tristezza al consumatore: anche qui sono rilevabili caratteristiche trasversali. Una su tutte: i bassi costi di marketing per l'elevata incidenza del passaparola sulla soddisfazione e la fedeltà alla marca.

Chi è Philip Kotler

78 anni. Autore di Marketing Management, il volume di marketing più usato nelle business school di tutto il mondo, nonché di numerosi altri testi sulla materia.
L'ultimo dei quali scritto in collaborazione con John Caslione è dedicato a
Chaotics, sistema che consente alle imprese di convivere con rischi (misurabili) e incertezze (non misurabili) mediante risposte rapide di mantenimento del controllo. Tale strumento di gestione manca a gran parte delle aziende attive nei mercati, che operano sul presupposto che un sistema automatico endogeno possa ristabilire gli equilibri distorti dalla turbolenza.

Secondo gli autori stavolta potrebbe non essere così.

Quello che c'è da imparare dagli altri

Tratti comuni di aziende secolari

  • Conservatorismo in ambito finanziario
  • Sensibilità al mondo circostante
  • Consapevolezza della propria identità
  • Tolleranza per nuove idee

Priorità comuni in aziende secolari

  • Valorizzazione del personale, non degli assets
  • Centralizzazione lasca
  • Formazione organizzata
  • Rimodellamento del personale

Caratteristiche comuni nelle aziende più amate

  • Focus su stakeholder vs shareholder
  • Salari modesti ai vertici aziendali
  • Salari mediamente più alti agli addetti
  • Top management raggiungibile
  • Formazione più lunga, rotazione più bassa

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