Per l’industria alimentare conta un portafoglio internazionale

Le prospettive di sviluppo sono correlate alla capacità di aprire stabilimenti all’estero. Le dinamiche di merge & acquisition dall’osservatorio di Vitale&Co (da Mark Up n. 283)

L’industria alimentare italiana rappresenta uno degli asset economici di eccellenza del Paese. Costituita prevalentemente da un tessuto imprenditoriale di tipo familiare, sta affrontando una trasformazione iniziata almeno 20 anni fa, dovuta alla globalizzazione e al confronto con realtà d’impresa straniere dalle dimensioni molto maggiori. Questo ha determinato un fenomeno di acquisizioni che ha generato il passaggio di proprietà di molte aziende italiane verso compagini straniere. Per fare il punto della situazione sui trend in atto, Mark Up ha incontrato Alberto Gennarini, managing partner di Vitale, società indipendente di consulenza finanziaria per operazioni di natura straordinaria come fusioni e acquisizioni, ristrutturazioni finanziarie e debt advisory, quotazioni in borsa e raccolta di capitali e finanziamenti. Gennarini è consigliere di amministrazione di alcune importanti aziende del largo consumo e membro dell’Advisory Board del fondo Idea Taste of Italy e membro Aiaf. Partecipa abitualmente come Lecturer/Visiting Professor Mba alla Università Bocconi e ha seguito come advisor molteplici operazioni di m&a avendo concluso con successo il maggior numero di operazioni nel settore food in Italia negli ultimi 10 anni.

Rispetto al mercato delle m&a, oggi come possiamo classificare le imprese nazionali?

Occorre distinguere tra le aziende che hanno un portafoglio prodotti totalmente italiano da quelle che hanno un portafoglio internazionale. La distinzione è fondamentale e merita di essere approfondita. Quando si parla di italian food e cucina italiana si intende indicare precise categorie merceologiche. Fuori da queste non vi è un riconoscimento che tipicamente si assegna al Made in Italy. Nel settore bakery, ad esempio un prodotto come il biscotto frollino che in Italia copre un momento importante di consumo come la prima colazione, all’estero non è riconosciuto. Diversamente se parliamo di categorie come aceto balsamico, olio di oliva, prosciutto crudo, pasta, ci troviamo in presenza di prodotti alimentari con un forte respiro internazionale. Quindi le imprese con un portafoglio prodotti con una forte vocazione internazionale hanno una grande prospettiva.

E quelle con un portafoglio marcatamente nazionale?

Si tratta di situazioni da gestire con attenzione che soffrono di due grandi elementi critici: la mancanza di export e il rapporto con la grande distribuzione sempre più problematico. Molta grande distribuzione attua azioni di forte pressione promozionale la quale erode notevolmente i margini dell’industria. Ci sono poi alcuni trend emersi nell’ultimo decennio, come quello salutistico, che ha visto nascere aziende che si sono sviluppate molto bene.

Rispetto alle aziende a vocazione internazionale, quali sono i trend in atto?

Abbiamo aziende italiane che hanno saputo crescere molto bene come per esempio Beretta o Rana e le altre aziende. Se osserviamo quali sono i fattori comuni che hanno determinato il loro successo, sicuramente vi è la costruzione e messa in funzione di uno stabilimento produttivo all’estero. È interessante osservare come la scelta di costruire un’unità produttiva all’esterno (nei casi citati in Usa), abbia “stravolto” in positivo i fatturati con un’accelerazione della crescita senza precedenti.

In altri casi hanno funzionato molto bene le joint venture nei paesi di destinazione. Basti pensare, per esempio, ai risultati che ha ottenuto con questa formula Lavazza in Francia e Cremonini in Russia. Vi sono anche formule miste in cui, successivamente a un’acquisizione, si attua un investimento importante nello stabilimento produttivo; questo è il caso di Colussi. Quindi, o investimenti nel mercato di destinazione oppure acquisizioni o ancora joint venture. Occorre però sottolineare che stiamo parlando di aziende che fatturano centinaia di milioni di euro, in cui la massa critica è fondamentale.

E rispetto al branding?

Questo è un altro aspetto molto importante. Lo sviluppo di un brand all’estero è un’operazione che può dare dei risultati economici importanti anche se non priva di rischi e difficoltà. Però i casi di successo ci sono, un esempio è Campari con lo sviluppo del brand Aperol.

Come si concilia la connotazione di italian food nei casi in cui il prodotto è realizzato all’estero?

Si tratta di produzioni totalmente italiane anche se oltreconfine. Prendiamo il caso di Rana con l’unità produttiva che ha aperto a Chicago. Lì si produce anche pasta fresca con una ricettazione italiana. Nello stabilimento americano, Rana ha trasferito le maestranze dall’Italia e il prodotto è realizzato come avviene in Italia. Medesimo percorso è quello di Beretta che utilizza il suino americano, leggermente più piccolo di quello italiano, con tutte le tecniche di stagionature originali che si utilizzano in Italia. È la cultura produttiva ad essere rilevante. Il tema centrale piuttosto, è disporre del personale in grado di gestire la produzione all’estero.

Rispetto alle dinamiche delle acquisizioni, i numeri ci dicono che stiamo perdendo pezzi importanti. Cosa ne pensa?

Si tratta di un fenomeno che riguarda non solo il food ma sostanzialmente tutti i settori industriali italiani. Io penso che l’obiettivo debba essere quello di puntare alle condizioni che consentano alle imprese di svilupparsi e prosperare, indipendentemente dalla compagine proprietaria. Se un azionariato straniero garantisce crescita e sviluppo, questo obiettivo è assolto. In ogni caso, salvo fenomeni imprevedibili, il trend di acquisizione delle imprese italiane da parte di gruppi stranieri non si invertirà.

Negli anni dell’euro, le acquisizioni estere di imprese italiane hanno assunto più un carattere speculativo o strategico?

Qualunque sia l’andamento del singolo comparto, la dinamica è sempre stata di tipo strategico in quanto il food italiano rappresenta un investimento concreto, solido e di reale valore.

Nel food, anche nei momenti di crisi più gravi, i segni meno davanti ai fatturati non sono mai a due cifre.

Chi investe nel food italiano lo fa per motivi di business. Non dobbiamo dimenticare che l’italian food ha sempre un posizionamento premium e le multinazionali alimentari che vogliono sviluppare il portafoglio prodotti, puntano sull’impresa italiana in modo strategico. Gli esempi sono molteplici. Uno su tutti è San Pellegrino. Dalla famiglia Mentasti è passata a Nestlé che ha investito molto e bene sul brand. Oggi San Pellegrino è un’acqua minerale italiana con una notorietà e un valore in tutto il mondo di primissimo livello. E questo grazie all’intervento di una multinazionale straniera che fa circa un miliardo di euro di fatturato solo con San Pellegrino.

Torniamo alle imprese alimentari italiane che non hanno un portafoglio internazionale. Come indirizzarle?

Il problema è la crisi dei consumi e anche il cambio degli stessi. Oggi abbiamo diverse aziende italiane “affaticate” finanziariamente e con bilanci in bilico, anche se vicine al break even. Purtroppo, siamo in situazioni in cui si gioca sulla sopravvivenza, in alcuni casi relativamente tranquilla, in altri molto faticosa.

Vie di uscita?

Diversificazione di canale e di prodotto. L’investimento in ricerca e sviluppo da un lato consente di avere un portafoglio prodotti innovativo e adeguato per i Paesi e per i diversi canali. Inoltre, c’è sempre la possibilità di arricchire il portafoglio prodotti mediante l’acquisizione di altre aziende.

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