Il primo dato che emerge con forza dal XXII Rapporto Annuale INPS, rileva un grande ottimismo: il tasso di occupazione italiano è al 61%, il massimo storico.
In un mercato del lavoro segnato negli ultimi tempi da emergenze sanitarie, aumento dei costi delle materie prime e inflazione elevata, si tratta di un importante segnale di ripresa. A trainare è in modo prevalente il lavoro dipendente a tempo indeterminato.
Permangono però alcune criticità e zone d’ombra. Tre, in particolare: questione demografica con progressivo invecchiamento della popolazione, divaricazione tra lavoro dipendente, in crescita, e autonomo, in calo, e persistere del divario territoriale tra Nord e Sud, dove a fronte di un recupero occupazionale del Nord si contrappone un Sud fermo al ridimensionamento della crisi del 2008. Non solo: continua a mancare la manodopera specializzata e permane l’onda lunga delle grandi dimissioni. Confrontati poi con i valori medi europei, i principali indicatori del mercato del lavoro italiano, seppur migliorati rispetto al passato, rimangono molto al di sotto.
Forza lavoro che invecchia
Il raggiungimento del tasso record di occupazione beneficia della negativa dinamica demografica: a fronte di uno numero stabile di occupati la popolazione in età lavorativa, secondo i dati ISTAR-Rf, si è ridotta di quasi 2 milioni rispetto ai valori massimi raggiunti tra il 2011 e il 2012 e contempla sempre più lavoratori che continuano a lavorare anche oltre i 64 anni. C’è comunque distinzione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo: per i dipendenti il recupero dei livelli pre Covid è stato veloce, mentre per i lavoratori indipendenti si scontano dinamiche di lungo periodo. Un’ulteriore distinzione, con riferimento al lavoro autonomo, che pur prosegue la sua tendenza discendente, riguarda la differenza tra nati in Italia (in diminuzione) e immigrati (in aumento).
Meno licenziamenti, più dimissioni volontarie
Un elemento che merita un approfondimento a sé è proprio l’analisi circa l’andamento del lavoro dipendente. Va segnalato che nel post-pandemia non c’è stata alcuna significativa ondata di licenziamenti: la riprova si ha nella quota mensile dei beneficiari di NASpI del 2022, la quale è sistematicamente sotto i livelli del 2019, ma dati analoghi si otterrebbero guardando agli altri ammortizzatori sociali, come malattia e Cig. Sembra quindi scongiurata la temuta valanga di licenziamenti che poteva essere attesa al termine del blocco degli stessi nel periodo pandemico e, anzi, i valori restano a oggi sotto quelli pre Covid. Del tutto diversa la situazione per quanto riguarda le dimissioni volontarie, pari a 1,074 milioni nel 2021 e 1,184 milioni nel 2022, vale a dire un aumento rispettivamente del 14% e del 26% in confronto al 2019 (e il balzo sarebbe ancora maggiore se confrontato al 2018). Tutto questo ricade nel fenomeno, anche italiano, delle grandi dimissioni che, a discapito di quanto possa apparire, non sono in diminuzione.
Più che di Great Resignation sarebbe però più corretto, seppur meno d’impatto mediatico, parlare di Great Reshuffle (Grande Rimescolamento): non un ritiro dal mercato del lavoro, ma un aumento della mobilità, in cerca di condizioni migliori.
Difficoltà nel ritrovare lavoro: mancano lavoratori specializzati
Quando però non si tratta di una scelta volontaria le cose si complicano, e il numero di chi non riesce a trovare lavoro, nonostante la ricerca, aumenta. Secondo i dati dei centri per l’impiego per il programma Gol (Garanzia occupabilità dei lavoratori), infatti, solo il 29,7% trova un lavoro entro i 6 mesi. A tutti coloro che non trovano una nuova occupazione, il 65,7%, bisogna poi aggiungere un 4,7% di working poor, lavoratori che un impiego lo hanno trovato, ma con un salario così basso da stare al di sotto della soglia di povertà relativa, come si rileva dal report di luglio dell’Agenzia nazionale politiche attive del lavoro. La causa, come emerge da un rapporto di Confartigianato, è da ricercarsi tra le motivazioni di difficile reperimento della manodopera, dove per il 32,4% è dovuto alla mancanza di candidati e per il 10,8% alla mancanza di preparazione specifica dei candidati stessi. Ecco, quindi, che non si può solo parlare di salario minimo o lavoro povero, ma il discorso deve essere allargato per affrontare un’altra urgenza:la formazione di manodopera specializzata che possa creare lavoro di qualità, su cui si basa il made in Italy.