Big data: come dare ai clienti ciò che desiderano

Gli opinionisti di Mark Up (da Mark Up n. 275)

Quando un retailer posiziona prodotti d’impulso (come lamette, caramelle o snack) in alcune aree chiave del punto di vendita (per esempio porta d’ingresso, avancasse) non è un caso. Sta solo approfittando di risorse che gli attori dell’eCommerce strutturalmente non hanno: lo spazio fisico e una disposizione accattivante dei prodotti. Oggi però esistono anche altre leve. I big data possono, infatti, aiutare i retailer tradizionali a comprendere meglio le preferenze dei propri clienti, per migliorare la progettazione dei punti di vendita, il marketing mix e altri elementi di localizzazione. A dire il vero, l’uso dei big data non è esattamente una novità. I retailer tradizionali, però, per molti anni non hanno avuto a disposizione strumenti e capacità analitiche accessibili su larga scala per interpretare i dati e si sono quindi quasi sempre limitati a progetti una tantum. Oggi invece il costo di queste tecnologie è sceso tantissimo, a fronte di un enorme aumento della massa di dati disponibili. Si può quindi economicamente applicare l’analisi dei dati a più aspetti della localizzazione, utilizzando algoritmi sofisticati -sviluppati internamente o acquistati che combinino la superficie, l’assortimento, il posizionamento dei prodotti, le referenze e i loro margini con la fedeltà del cliente e i percorsi di navigazione sul web. Il risultato? Ridisegnare ogni centimetro di spazio per estrarre il massimo del valore. Nel concreto, i big data possono massimizzare il margine del punto di vendita innanzitutto tramite l’uso dello spazio, ottimizzando la differenza di profittabilità che una categoria di prodotti genera in una posizione rispetto a un’altra del punto vendita, ma anche tenendo conto delle differenze di vendite tra i mix di merci dei singoli negozi, nonché degli articoli non disponibili e di quelli stagionali. A livello di assortimento si possono raggruppare i punti di vendita in segmenti, utilizzando i dati di vendita aggregati per marca, dimensione o preferenze, per facilitare l’identificazione di modelli consistenti fra negozi simili e portare a previsioni più accurate sulle vendite. Inoltre, grazie alle adiacenze si può superare la strategia standard di allocazione prodotti sugli scaffali, tipicamente basata su vendite, punti prezzo, margine o categoria, cercando di favorire il più possibile il cross-selling tra categorie. Così si può determinare scientificamente, per esempio, se il posizionamento di una lacca per capelli accanto alle spazzole è più conveniente rispetto ad altre combinazioni, oppure a quali categorie assegnare le zone più preziose, come per esempio l’ingresso del negozio. I big data possono aiutare a ottimizzare anche altri elementi di localizzazione, tra cui il design del negozio, i prezzi e le promozioni. Per esempio, utilizzando la segmentazione quantitativa della customer experience, si può migliorare l’aspetto di uno spazio di vendita. Oppure analizzando i dati per identificare quali tipi di promozioni locali hanno funzionato meglio in passato e pianificare le promozioni future di conseguenza. Dal mercato statunitense arrivano esempi virtuosi: come un retailer specializzato che, grazie a una nuova strategia di localizzazione, ha incrementato le vendite del 3%, nonostante il calo del mercato a livello nazionale. Per gli attori italiani questo richiederà alcuni interventi preliminari: in alcuni casi, i dati non vengono raccolti in maniera continuativa; in altri, i sistemi di merchandising, pricing o gestione delle vendite non sono in grado di eseguire le analisi sofisticate necessarie. Per poter sfruttare al meglio i big data, i retailer devono investire in sistemi personalizzati, ma anche in risorse umane e nuove competenze.

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