Avanti a tutta birra? Non proprio. Il comparto è in calo nel 2023. Dopo l’exploit del 2021 e 2022, nella prima metà dell’anno -3% di valore condiviso (oltre 120 milioni di euro in meno). A metterlo nero su bianco l’analisi “La creazione di valore condiviso del settore della birra in Italia” di Osservatorio Birra.
Previsioni fosche anche per AssoBirra, secondo cui il 2023 si chiuderà in rosso. Vendite in flessione di circa il 6% nei primi otto mesi dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2022. Soffre l’export: -7,4% anno su anno nei primi sei mesi del 2023.
C’è anche il rischio che il rallentamento delle spillatrici possa affossare (o quantomeno andare di pari passo con) anche altri consumi: uno studio Osservatorio Birra/Piepoli dimostra infatti che quando si ordina una birra, 8 volte su 10 viene affiancata da pizza o altri piatti della cucina italiana.
L’inflazione nel boccale
Pesano gli aumenti delle materie prime agricole. Il malto d’orzo costa il 44% e il mais il 39% in più. Incisivi anche i rincari di vetro (salito del 40% nel 2022 e del 20% quest’anno) e alluminio (+20%).
Oltre all’inflazione, si riduce il potere d’acquisto degli italiani, in una fase di rallentamento dell’economia. Ombre inquietanti incombono su un settore che comunque non ha mai smesso di investire, con oltre 250 milioni di euro negli ultimi quattro anni.
Un 2022 spumeggiante, 2023 senza gas
Nel 2022 la birra aveva per la prima volta in Italia sfondato la doppia cifra di valore condiviso, superando i 10 miliardi di euro (in crescita di oltre il 9% rispetto il 2021). Nell’anno cresciuti i volumi del 4,1%, la quota dell’horeca del 3,2%, gli occupati nel comparto dell’8% (con oltre 103 mila dipendenti in tutta la filiera), distribuiti 2,8 miliardi di euro di salari. Ogni euro di birra venduta ne ha generati 6,8 lungo l’intera filiera. Ne beneficiano soprattutto le fasi a valle (distribuzione e vendita). Ma l’aumento dei prezzi non è certo una novità, né avrebbe dovuto far ben sperare la crescita della quota delle importazioni (quasi più 10% in valore sul 2021).
Aumento dell’accisa: rischio boomerang per l’erario
Desta grave preoccupazione per il settore il peso delle accise, destinate ad aumentare nuovamente a partire dal 1° gennaio 2024.
In una birra alla spina circa 80 centesimi sono imputabili all’accisa mentre su una bottiglia da 0,66 in offerta -formato più venduto in Italia al supermercato- questa tassa incide per circa il 40% sul prezzo di vendita. Un aumento di queste potrebbe scoraggiare gli italiani dal comprare, oltreché gravare su tutta la filiera, in primis i produttori.
Il governo ha confermato anche per il 2023 quello che la Coldiretti ha chiamato “emendamento salva birra”, che prevede tagli fiscali tanto maggiori quanto più piccola è un’impresa: per i birrifici artigianali con una produzione sino a 10 mila ettolitri, lo sconto sulle accise per il 2023 è rimasto al 50%; per chi produce sino a 30 mila ettolitri è pari al 30%, e via dicendo. Tutto questo rischia di non ripetersi nel 2024, vista anche la coperta corta della Nadef.
Nel 2022 il settore ha pagato all’erario 4,3 miliardi di euro. In passato, quando lo Stato ha abbassato l’accisa sulla birra, ha incassato di più: +27% di entrate erariali nel 2017-2019 rispetto al triennio precedente (in cui la tassa era più gravosa). Inoltre, con una minor pressione fiscale i produttori hanno dimostrato di essere in grado di investire e di farlo in maniera proficua, aumentando il volume d’affari, lanciando nuovi prodotti, crescendo e generando gettito.
Inoltre, secondo Osservatorio Birra, una riduzione delle accise potrebbe alleggerire la pressione inflattiva, facendo ritornare ai consumatori voglia di bere, aumentando la competitività.
Insomma, l’alleggerimento della pressione fiscale potrebbe far tornare a spumeggiare i conti del settore.