Gli opinionisti di Mark Up

Giovanni Cobolli Gigli, Mariano Bella, Massimo Moretti, Sandro Castaldo, Andrea Notarnicola, Massimo Giordani, Roger Botti, Carlo Meo. (da Mark Up n. 248)

Antitrust e concorrenza

di Giovanni Cobolli Gigli - Federdistribuzione
@federdis

Cobolli_fotoÈ in discussione al Senato il Ddl sulla concorrenza. Partito con grandi obiettivi, si è poi ridotto nel tempo a una misura che, se approvata nella formulazione attuale, risulterebbe di dubbia e depotenziata efficacia. Positivo il fatto che, dopo tanti anni, un provvedimento di questa natura sia varato, bisogna però evidenziare che si tratta di un’opportunità mancata. Non c’è dubbio: “liberalizzazione” e “concorrenza” sono termini che nel nostro Paese faticano a prendere vera cittadinanza e incutono ancora troppa preoccupazione. Ciò perché una cultura anglosassone di un’economia davvero libera non riesce a imporsi per la strenua resistenza che fanno lobby di ogni tipo, a efficace difesa del proprio interesse. Anche perché manca una chiara presa di posizione da parte del Governo, tale da imporre una nuova visione e un grande cambiamento. La migliore prova di come questa sia la reale situazione è la ancor debole autorevolezza che viene riconosciuta all’Antitrust, un organo costituito in Italia solo nel 1990, un secolo dopo quello che viene riconosciuto come l’origine del diritto antitrust, cioè lo Sherman Antitrust Act, emanato negli Usa nel 1890. L’Autorità è attiva in molti campi, emette pronunciamenti e pareri, svolge indagini conoscitive ed istruttorie, ma non è ancora riuscita ad ottenere quel peso politico che dovrebbe avere. Così come il suo potere di advocacy non è ancora del tutto accettato. È questa una grave carenza e un’indicazione di arretratezza del nostro Paese. Più libertà e concorrenza nei mercati, insieme alle necessarie tutele sociali, non potrebbero che portare benefici all’economia e al Paese.

Bella_foto
Mariano Bella

I difetti del fisco italiano

di Mariano Bella - Confcommercio
@confcommercio

Voglio chiosare un sontuoso editoriale di Enrico De Mita sui difetti del fisco italiano (Il Sole 24ore, 2 marzo 2016). A fronte del nuovo asserito record di incassi dalla lotta all’evasione (14,9 miliardi di euro nel corso del 2015), De Mita denuncia il permanere di due punti di estrema debolezza che caratterizzano il nostro sistema tributario, il caos legislativo e l’eccesso di carico fiscale: ”L’insopportabilità (del fisco) è il punto oltre il quale l’evasione è una necessità. L’insopportabilità è causa tecnica di evasione”. Eccezionale. Solo uno spirito libero, autorevole e indipendente può scrivere cose del genere. Mi soffermo sull’elemento: “Causa tecnica”. De Mita non pone infatti il tema sul piano etico del giusto o sbagliato (sì, evadere è sbagliato, ma questo non aiuta a risolvere il problema), bensì indaga sulle cause dei comportamenti. È uno schema genuinamente economico: se le norme mutano continuamente, auto-generandosi dentro un processo legislativo senza confini, senza fine e senza fini (comprensibili), l’adempimento sarà molto costoso e indurrà a nascondere imponibile in misura da ridurre l’imposta pagata a un livello in cui essa, sommata ai costi, equivalga all’imposta dovuta in teoria. Se la stessa imposta supera qualche soglia oltre la quale l’attività economica diventa non profittevole, si valutano alternative: nascondere imponibile o rinunciare alla stessa attività. C’è abbondanza di letteratura e di evidenza econometrica sulla validità di queste relazioni: eppure, nel dibattito pubblico, prevale la caccia alle streghe piuttosto che l’analisi delle determinanti dell’evasione fiscale. E il problema non si risolve.

Massimo Moretti
Massimo Moretti

Centri commerciali: il prodotto scarseggia
di Massimo Moretti - Presidente Cncc e Head of Business Unit Portfolio Beni Stabili SIIQ

Anche quest’anno si è celebrato il Mipim a Cannes. Parlo di celebrazione perché, mentre il Mapic è sicuramente e solidamente business oriented, il Mipim è molto più relazionale. Si sono ascoltate le relazioni dei macroeconomisti: quello che ha più colpito sono gli indici della fiducia delle imprese e quello delle famiglie italiane, entrambi, e da mesi, ben al di sopra della media europea. Al contrario di quelle che sono le previsioni di crescita del Pil italiano al di sotto della media europea. Il clima che si respirava tra gli attori del mercato (investitori, in primis) e gli opinion leader era sicuramente sereno, positivo, voglioso … oggi tuttavia è un pugno nello stomaco registrare come il mercato spagnolo abbia transato immobili (non residenziali) per cirvvvvca 15 miliardi di euro, contro gli 8 dell’Italia (e i 25 della Francia). C’è voglia d’Italia, c’è voglia di fare (molto anche da parte degli stranieri), il mercato è inondato di liquidità, ma non abbiamo “il prodotto sugli scaffali”. Cioè: non siamo in grado di presentare immobili adeguati, da offrire agli investitori. Ragionando poi su come il nostro portafoglio immobiliare sia vecchio, sulla massa dei “non performing loans” delle banche e soprattutto sulla necessità dello Stato di vendere gli immobili sembra un paradosso, ma è così. Non siamo fermi (soprattutto il governo, impressionanti le modifiche normative e la volontà forte espressa dalle numerose autorità presenti), ma la macchina fa fatica ad avviarsi. Ogni ritardo potrebbe essere però fatale, non solo per l’immobiliare, ma anche per l’edilizia, e in ultimo anche per i retailer, che si troverebbero con gli stessi prodotti, senza alternative, con limitate possibilità di sviluppo delle catene.

di Sandro Castaldo - Università Bocconi
di Sandro Castaldo - Università Bocconi

Bail-in. Il bubbone è venuto fuori

di Sandro Castaldo - Università Bocconi
@CastaldoSandro

In Italia abbiamo, ‘nascosti’ nelle nostre banche, in particolare quelle locali, più di 200 miliardi di crediti di scarsa qualità o inesigibili. Questo è in parte un naturale effetto della crisi economica vissuta dal nostro Paese in modo più intenso di altri negli ultimi anni, ma è anche conseguenza del malcostume italico di intrecciare politica e finanza, con privilegi che hanno indotto a concedere crediti a network relazionali ristretti. La combinazione dei due fenomeni ha creato il grosso del problema: se si concedono crediti, privilegiando in particolare la relazione (vedi: capitalismo relazionale) è più facile incappare nel rischio della mancata restituzione, perché in un periodo di crisi sopravvivono le idee imprenditoriali forti e non quelle capaci solo di ‘far relazione’. Detto questo, bisogna trovare una soluzione al rischio che il bubbone si trasformi in una nuova crisi e il tutto deve essere fatto in tempi ragionevoli. La possibilità di cedere questi asset deteriorati (soprattutto quelli più facili da riscuotere) ad una bad bank o venderli sul mercato con una garanzia statale è una soluzione ragionevole e condivisa con l’Europa. Ma non è servito a placare i mercati. Anche perché nel frattempo sono emerse altre banche locali in difficoltà, sul modello Etruria. Non basta progettare soluzioni, bisogna implementarle, in fretta e ad ogni costo! La Bce di Draghi ha creato una favolosa sponda con i tassi negativi (capitali prestati con un premio). Necessario cambiare a livello di istituti di credito, per evitare che il capitalismo relazionale dilaghi ancora e per veicolare la liquidità disponibile verso le buone idee imprenditoriali, le uniche in grado di garantire il nostro futuro.

Andrea Notarnicola
Andrea Notarnicola

Importanza delle imprese sociali

di Andrea Notarnicola - Partner Newton Management Innovativo 24 ORE Group

In una logica di inclusività, molti brand non solo sostengono alcune iniziative di responsabilità sociale ma si propongono anche come modello di competenza per le cosiddette social enterprises. Nel Regno Unito Lloyds Bank e Bank of Scotland hanno promosso a Londra un programma di formazione presso la School for Social Entrepreneurs. La scuola è stata fondata nel 1997 da Michael Young, un imprenditore attivo nel sociale. I suoi corsi formano persone capaci di inventare, sostenere e sviluppare progetti di comunità, non profit e imprese sociali e i programmi attraverso un approccio innovativo di apprendimento si focalizzano su pratiche e casi reali. Ad oggi la scuola ha formato più di 1.500 imprenditori sociali di successo. Così Nikki Markham ha fondato una associazione che aiuta i veterani dell’esercito nel loro complesso percorso di reinserimento sociale. Daniel Robinson ricicla biciclette usate, le rigenera e le mette a disposizione dei bambini delle aree più povere del Regno Unito. Jason Gough organizza esperienze di kayak per persone con disabilità. Greygory Vass ha inventato un progetto di hairdressing per persone di tutti i generi e di tutte le sessualità. Chris Hellawell a Edimburgo ha creato uno spazio di sharing di oggetti e attrezzature a disposizione delle persone meno abbienti. Heather Moore in giro per le scuole d’Inghilterra insegna ai bambini il valore delle api per il benessere dell’ecosistema. Solo nel 2015, le organizzazioni costruite dai neoimprenditori sociali iscritti alla scuola hanno creato 870 posti di lavoro e 2.930 posizioni di volontariato. Il terzo settore nel Regno Unito offre un contributo di 24 miliardi di sterline all’economia del paese.

Massimo Giordani
Massimo Giordani

Il digital divide è sempre più un problema culturale

di Massimo Giordani - Digital Achitect
@MassimoGiordani


Il tema del “digital divide” è sempre attuale. Con questo termine, ci si riferisce a due aspetti profondamente diversi: uno tecnologico, che riguarda l’infrastruttura idonea a portare la connettività Internet agli utenti, e uno culturale. Per quanto riguarda il primo aspetto tecnologico purtroppo, l’Italia non è al passo con la media europea ed è molto lontana dalle velocità di connessione raggiunte nei paesi più avanzati (Nord Europa in primis). Il punto cruciale è la scarsità di fibra ottica sul territorio. Molti operatori stanno lavorando per porre rimedio a questo ritardo e anche il Governo continua a sostenere di voler accelerare il ritmo di ammodernamento infrastrutturale.
Il digital divide culturale riguarda, invece, le competenze che ogni individuo deve possedere per riuscire ad utilizzare gli infiniti servizi offerti dal web. Qui risiede il problema più grave: troppe persone, nel nostro Paese, non si sono mai connesse con continuità o, se lo fanno, sfruttano una piccolissima parte delle opportunità che la rete mette a disposizione a causa di una ignoranza digitale che ha molte origini. In alcuni casi può essere dovuta a oggettivi deficit culturali di base ma, il più delle volte, nasce da una scarsa propensione all’innovazione e da un sistema scolastico che, ancor oggi, fatica a stare al passo con l’evoluzione tecnologica. Per affrontare sistematicamente il secondo tipo di digital divide, occorrono molte più risorse, economiche e temporali, di quante ne servano per cablare in fibra ottica ogni metro quadro di territorio; una situazione che, senza provvedimenti adeguati, rischia di minare il futuro dell’intero Paese.

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Retail e social moltiplicano la brand experience

di Roger Botti
direttore creativo Robilant Associati

I social media non hanno da sè il potere di rendere i brand rilevanti per le grandi folle. Ciò che fanno efficacemente è moltiplicare l’effetto che si ha quando la marca genera un impatto positivo sulla vita delle persone attraverso azioni e contenuti rilevanti per loro: educazione, intrattenimento, acculturamento. Ancora oggi, il modo più efficace e coinvolgente che i brand hanno di fare questo è costruire esperienze fisiche, vere e tangibili. Meglio se anche condivisibili. Le persone non sono disposte a rinunciare alla dimensione della fisicità. Ma che si tratti di un corner al supermercato, di uno store o spaccio aziendale, di un temporary event (anche in versione itinerante) l’esperienza è tanto più impattante quanto più è sapientemente integrata con gli strumenti digitali, in un abile mix di reale e virtuale, di fisicità e condivisibilità. Orchestrare l’intera esperienza dall’inizio alla fine su ogni canale è fondamentale. Ma in che modo?
Preparate il terreno: usate i social per dare un appuntamento, concedere anticipazioni, creare curiosità. L’attesa aumenta il desiderio. Date alle persone una ragione speciale per incontrare il brand di persona: inviti a eventi esclusivi, edizioni limitate, speciali coupon disponibili solo in-store e date loro una ragione per condividerlo. Intratteneteli e fateli sentire coccolati. Non importa se l’acquisto si conclude online in un secondo momento. Trasformateli nei vostri ambassador e non vedranno l’ora di consigliarvi ai loro amici. Progettate non negozi, ma set: per i loro selfie, per i loro scatti, per i loro blog. Branding oggi significa disegnare esperienze memorabili con linguaggi mutimediali.

Carlo_Meo_foto

Una premium pl può firmare un concetto retail?

di Carlo Meo
Viaggiator Goloso temporary store, Terre d’Italia ristorante, Fior Fiore Torino, tre casi in cui un marchio private label genera un concetto retail. Anomalia italiana, riscossa della grande distribuzione, tentativi di differenziazione? Siamo solo all’inizio e sarà il tempo a giudicare il successo delle iniziative, ma alcune considerazioni sono valide fin da subito. Innanzitutto, è sicuramente una novità l’attribuire il marchio di una private label, ovviamente premium, a un format retail: gli inglesi maestri del settore non lo hanno mai fatto anche se stanno puntando sul concetto “grocerant” (comprare e mangiare) ma inserendo all’interno dei supermercati o delle food hall brand specializzate nel food service. L’accordo John Lewis-Rosso-Pomodoro-Ham Holy Burgher è un esempio che ci tocca da vicino. Non vale neanche citare gli esempi di Whole Foods e del similare Eataly perché questi in realtà sono nuovi concept e non private label. Poi c’è una notevole differenza tra un temporary store fatto per testare e comunicare il peso di un marchio ed entrare direttamente in un settore come la ristorazione che ha regole diverse e complesse rispetto alla vendita di prodotti. Come la marca che apre concept store passando dalla produzione al commercio, il passaggio dallo scaffale alla cucina non è così immediato. Non è detto che mangiare un piatto di spaghetti alla matriciana con pasta private label premium a €8 sia il massimo per i clienti. Il mondo del food esperienziale è fatto di sfumature e dettagli che in teoria sono proprio l’opposto della “praticità’” della grande distribuzione. Per ora una sola certezza: il successo di queste iniziative è sempre la location.

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