Intervista esclusiva a Paul Roberts

Copertina – MARK UP Incontra l'autore americano de "La fine del cibo" e si confronta sulle prospettive a breve termine. (Da MARK UP 196)

Olivier de Schutter, delegato speciale dell'Onu per il diritto all'alimentazione è ultimativo: “Stiamo andando verso una nuova crisi alimentare”. All'origine di questa affermazione c'è, fra le prossime cause, la volatilità dei prezzi delle materie prime e l'interesse ormai evidente della speculazione finanziaria alle commodity alimentari.
È un po' quello che è già avvenuto nel 2008, ma quell'anno lavoravano i derivati velenosi della Leman Brothers e tutto sembrava diverso. Poi i prezzi dei prodotti agricoli sono tornati nel loro alveo naturale.
Perché, allora de Schutter lancia un nuovo allarme?
La risposta n° 1 è: già 80 nazioni vivono e operano in condizioni di deficit alimentare, un aumento dei prezzi per loro sarebbe drammatico.
La risposta n° 2 è: c'è una forbice sempre più larga fra gli stock e i prezzi di mercato. Come si combatte tutto questo? Risposta n° 1: maggiore trasparenza. Risposta n° 2: una migliore gestione degli stock.
Non siete soddisfatti di queste domande e di queste risposte? Nemmeno noi di MARK UP. Rimane il fatto ormai che chi investe in modo speculativo sulle materie prime e passa con disinvoltura dal grano ai minerali al petrolio non si interessa di certo della qualità del prodotto che sta comprando o se proviene dall'Australia o dall'Argentina.
È per questo sentimento di insoddisfazione che abbiamo girato le stesse domande a Paul Roberts, giornalista e analista, che ha scritto un libro denso di domande, “La fine del cibo”, edito in Italia da Codice, durante la due giorni di fine 2010 organizzata da Barilla center for food&nutrition sul futuro dell'alimentazione.

Paul ti trovi d'accordo con le tesi di de Schutter?
Sì, ma rispetto a qualche anno fa è più difficile fare previsioni. Oggi il sistema alimentare è molto più articolato del passato e fattori esogeni ed endogeni condizionano il mercato dell'alimentazione.

Per esempio?
Le materie prime, ma il cibo stesso, sono diventati oggetto di speculazione da parte di chi specula finanziariamente. Molte nazioni, poi, non hanno chiaro il valore del cibo. Lo dico apertamente: sono sorpreso nel constatare che consumatori e legislatori di un paese come gli Stati Uniti non abbiano ancora deciso di mettere ordine nell'alimentazione, nonostante il mondo alimentare si sia molto adoperato per darsi un aspetto corretto.

Perché non c'è stata continuità di comportamenti? Dopotutto arriviamo dagli anni '70 e '80, contrassegnati da grande abbondanza di cibo a prezzi relativamente bassi. Sì, è vero. Eravamo capaci di produrre quantità maggiori di cibo, più cereali, più carne, più frutta e più verdura ai costi più bassi di sempre e con una certa varietà. Livelli di sicurezza, una qualità e una praticità che agli occhi delle generazioni passate sarebbero stati sbalorditivi. Sono stati anni di trionfo, quasi un monumento alla capacità dell'uomo di combattere la fame nel mondo. Oggi, però, i limiti di questo sogno, di questo trionfo sono evidenti.

Quali sono?
Prendiamo il caso della sicurezza. Le catene di fornitura su cui si fonda il supermercato globale e che assicurano la disponibilità di carne e prodotti freschi in tutti i continenti e in qualsiasi stagione hanno creato contemporaneamente opportunità sia per i più comuni agenti patogeni alimentari, sia per le nuove varietà emergenti come il virus dell'influenza aviaria.

Va bene, e adesso a che punto siamo arrivati?
I metodi che hanno reso possibile tanta abbondanza, come i grandi allevamenti industriali e l'agricoltura intensiva, hanno deteriorato la capacità produttiva del nostro sistema naturale e non si sa con precisione come faremo ad alimentare i 10 miliardi di persone attesi per la metà del secolo.

Sul versante del consumo che sensazione hai?
Che l'atto del mangiare, che è stato il fulcro di numerose tradizioni sociali, famigliari e spirituali si è tramutato per molti consumatori in fonte di irritazione, confusione e sensi di colpa.

In che senso?
Pensa alla quantità di diete oggi esistenti, l'ossessione verso i carboidrati buoni e cattivi, additivi, allergie, scandali più o meno dichiarati.

Qual è allora il nuovo significato di cibo?
Le culture che una volta attribuivano alla cucina e all'alimentazione un ruolo centrale per la preservazione dell'identità sociale e della tradizione si trovano usurpate da una cultura globale in cui il prezzo e la praticità la fanno da padroni. Il pasto del mezzogiorno men che meno ma anche il pasto della sera come momento sociale sono diventati obsoleti.

Ma si è creata un'altra, alta cultura nell'alimentazione, no?
Tutt'altro. Si è trasformata in un feticcio grazie alle migliaia di libri e alle trasmissioni televisive.

Bene, anzi male. A che punto siamo adesso?
Siamo alla fine di un periodo aureo in cui il food sembrava diventare di anno in anno più abbondante, più sicuro, più nutriente.

E al posto di simili certezze cosa rimane?
Molte domande: che cosa sta accadendo al cibo? Com'è possibile che il nostro sistema alimentare così efficiente ci sia sfuggito di mano? Quanto siamo vicini al punto di collasso? Quali soluzioni concrete posso ripristinare per l'equilibrio del sistema prima di arrivare a quel punto?

Mi costringi a domandartelo. Quanto manca al punto di collasso?
Molto poco.

Quanto?
32 anni, se continuiamo a questi ritmi e soprattutto se rinunciamo a capire e a cercare i correttivi. Partendo dal fatto che l'alimentazione è sì un comparto economico, ma come tale non va trattato.

Cioè?
Il cibo è un comparto economico, ma non è un fenomeno economico. Deve seguire le leggi della domanda e dell'offerta, del profitto aziendale eppure ciò che mangiamo non può essere assoggettato a un mero modello industriale moderno. Il cibo dal punto di vista fisico non è adatto alle produzioni di massa. È necessario modificare piante e bestiame per semplificare raccolta e lavorazione che oltretutto vengono caricati di altri costi esterni come la logistica. Questo per dire che ad applicare le prassi delle attività economiche a un settore delicato come quello dell'alimentazione si producono effetti perversi.

Effetti o sfide?
C'è una discrepanza fra ciò che viene chiesto dal consumatore e ciò che viene prodotto. È quindi necessario riempire il divario fra cibo come fattore economico e cibo come fattore biologico. I problemi del sistema alimentare nascono proprio dal suo successo. E ritorniamo al punto iniziale del nostro incontro: a dispetto dell'abbondanza prodotta il sistema alimentare moderno non ha cancellato la fame nel mondo. È più di un paradosso. Il modello incentrato sulle produzioni a basso costo, sulla illimitata produttività non è il massimo che ci si potesse aspettare.

Perché hai accennato alla vulnerabilità del sistema?
Perché la produzione alimentare avviene in un contesto globale in cui ciascuna categoria di merce è prodotta dove i costi sono inferiori e trasportata poi dove la domanda lo richiede: più vulnerabile di così il sistema davvero non potrebbe essere…

Ritorniamo alla fine del cibo, il titolo del tuo libro e ripetiamo il termine che hai usato, collasso. Siamo realmente indirizzati su questa strada?
Il sistema sta andando verso il collasso da solo, non è spinto da nessuno e non serve una bomba per collassarlo. Stiamo esaurendo le sostanze organiche presenti nel suolo, prosciugando le falde acquifere, utilizzando ancor più pesticidi e fertilizzanti, eliminando le foreste. Se continuiamo su questa strada il collasso è inevitabile, o se preferisci oltrepasseremo la soglia cruciale. Il crollo inizialmente potrà toccare un solo settore, un solo paese. Ma viviamo in un sistema interdipendente e questo coinvolgerà altri settori, altri paesi.

Paul: soluzioni?
Lasciamo perdere la politica, che stenta a capire. Una soluzione potrebbe essere quella di pensare a un sistema alimentare meno legato alle forniture globali o nazionali, che si appoggi a un livello regionale.

È fattibile?
È un processo lungo, difficile, ma fattibile. Molti paesi non hanno ancora un sistema integrato produzione-distribuzio­ne-consumo come quello americano. Nella stessa Europa mol­te categorie di prodotto sono realmente regionali.

Altre soluzioni?
Dipende a questo punto dalle singole categorie merceologiche. Pensiamo al pesce pescato: potrebbe essere sostituito da quello di acquacoltura che, a sua volta, potrebbe essere sostitutivo anche di parti di produzione di carne. È quella che ho chiamato la rivoluzione blu: potrebbe essere oggetto di una nuova formulazione con regole più precise e soprattutto con una visione di lungo periodo di sostenibilità.

In due parole: cosa vuol dire sostenibilità di lungo periodo?
Ridurre la domanda di prodotti alimentari, soprattutto di carne.

Chi è Paul Roberts

Paul Roberts è giornalista dal 1983 (ha lavorato anche per il New York Times). Studia il complesso rapporto tra economia, tecnologia e mondo naturale, con particolare attenzione alle sfide riguardanti il cibo e la sicurezza energetica. Il suo libro “La Fine del Cibo” (2008, edito adesso in Italia da Codice) ha esaminato l'evoluzione e le vulnerabilità del sistema alimentare mondiale. Il suo primo libro “The End of Oil” (2004) ha considerato i limiti dell'economia globale basata sul petrolio e ha esaminato le opzioni alternative al petrolio. Paul Roberts partecipa regolarmente a trasmissioni televisive e radiofoniche nazionali e internazionali, tra cui Lou Dobbs sulla Cnn, Bbc, Pbs. Tiene, inoltre, lezioni su argomenti relativi all'energia e altre risorse e ha tenuto presentazioni per numerose organizzazioni, tra cui il World Economic Forum (Davos), l'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente statunitense e il Consiglio per le Relazioni Internazionali.

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