Le supply chain tra deglobalizzazione e nazionalismo economico

Diversificare le fonti di approvvigionamento è stata una delle risposte alle fragilità della globalizzazione messe a nudo dalla pandemia. Uno studio di McKinsey
La globalizzazione può essere letta come una trama collettiva nella quale hanno avuto luogo gli eventi socio-economici che hanno caratterizzato il mondo degli ultimi decenni. Tra gli shock più o meno forti che si sono verificati, la pandemia da Coronavirus ha forse dimostrato più di altri la fragilità delle catene globali del valore, imprimendo una sostanziale accelerata al cosiddetto trend di “deglobalizzazione”. Con questo termine, che l’Enciclopedia Treccani definisce “superamento della globalizzazione attraverso l’incentivazione dei mercati locali” e, in questo contesto, è interessante soffermasi sulle supply chain, le catene di approvvigionamento che incarnano l’essenza più vera delle economie globalizzate.

Efficienza vs resilienza

Nonostante la globalizzazione abbia determinato uno sviluppo senza precedenti, oggi questo modello economico evidenzia dei limiti rilevanti. Le ragioni di ciò possono essere identificate nel tipo di economia profondamente interconnessa a livello globale in cui alcune attività, come ad esempio la produzione di beni, sono vincolate a più livelli. Di fatti, come si legge nel dossier "Il mondo che verrà: ritorno al futuro?", pubblicato lo scorso dicembre 2021 dall’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), nel contributo dal titolo “La nuova era della scarsità” a cura di Roger W. Ferguson e Upamanyu Lahiri del CFR – Council on Foreign Relations, “la produzione just-in-time o anche definita produzione “lean”, per essere avviata prevede l’ordinazione solo dei componenti indispensabili e solo quando necessario. Questo approccio ha permesso di ridurre i costi di scorte e magazzini, e ha sensibilmente aumentato i profitti. Oggi rappresenta la modalità di produzione dominante in tutto il mondo. Un approccio che non lascia spazio all’errore in quanto un ritardo in uno solo degli ingranaggi mette a rischio l’intero processo. Il fatto che esistano comunque fattori che sfuggono al controllo dei fornitori ha fatto di questa strategia un approccio rischioso. Quanto si guadagna in termini di efficienza e velocità della supply chain, viene perso in resilienza”.

La pandemia è stato solo l’ultimo (seppur il più impattante) di una serie di eventi avversi al modello globalizzato. Vi sono evidenti questioni geopolitiche, una su tutte le tensioni geopolitiche sino-americane, e in generale la massiccia dipendenza che (Europa inclusa) si è instaurata con la Cina, la “fabbrica del mondo” per antonomasia. Oltre a queste difficoltà di politica economica, vi è poi il tema dell’energia, che non si traduce solo nel caro bollette per i privati cittadini, ma ha conseguenze importanti sul business e la sua operatività. Inoltre, si tende a dimenticare come le interruzioni della catena di approvvigionamento imputabili a disastri naturali determinino perdite per miliardi di dollari sotto forma di fermo della produzione e mancati ricavi. Questo è dovuto alla complessità che sta dietro alle catene di approvvigionamento, per cui gli stessi manager hanno difficoltà a monitorarne gli sviluppi, se non in certi casi, di averne del tutto cognizione, facendone conseguire una mancanza di preparazione in termini di risk management (Thomas Insights elabora qui un piano in 4 punti di “Supply Chain Disaster Preparedness”).

Strategia Nearshore

A questo proposito,  il report How Covid-19 is reshaping supply chains, a cura di McKinsey & Company, analizza gli impatti della pandemia sulle catene di approvvigionamento a livello globale, intervistando un pool diversificato di responsabili di supply chain, che hanno descritto i passi intrapresi nel corso dell’anno per rinforzare le proprie catene di fornitura, confrontandoli con i piani elaborati in epoca pre-pandemica. La survey, condotta nel secondo trimestre del 2021 e pubblicata lo scorso novembre 2021, mette in luce come il 92% degli intervistati abbia migliorato la resilienza delle proprie supply chain attraverso interventi di natura fisica.
In termini generali le risposte alla sfida della resilienza variano a seconda dei settori: gli operatori healthcare si posizionano in cima alla classifica, avendo implementato la gamma più ampia di misure, con il 60% degli intervistati nel settore che affermano di aver regionalizzato le proprie supply chain e il 33% di aver spostato la produzione più in prossimità dei mercati finali. Al contrario, solo il 22% dei player del settore automotive, aerospaziale e della difesa ha regionalizzato la produzione, sebbene oltre il 75% avesse dato priorità a tale approccio in una survey analoga condotta nel 2020. Gli operatori dei settori chimico e delle commodity sono quelli che hanno apportato i minori cambiamenti alle proprie catene di fornitura nel corso dell’anno.

"In tutti i settori, la maggior parte degli intervistati ha investito in tecnologie digitali della catena di fornitura dal 2020 e prevede di continuare" © McKinsey & Company (2021) - https://www.mckinsey.com/business-functions/operations/our-insights/how-covid-19-is-reshaping-supply-chains

L’evidenza principale che emerge dal report riguarda la regionalizzazione, che viene identificata come una priorità per la maggior parte delle aziende. Infatti, quasi il 90% degli intervistati afferma di voler intraprendere strategie di regionalizzazione nei prossimi tre anni, e il 100% degli operatori healthcare e di ingegneria, costruzioni e infrastrutture definisce tale approccio come rilevante per il proprio settore.

In tal senso, le strategie di nearshoring (in opposizione all'offshoring) potrebbero quindi permettere di moderare le criticità di catene globali troppo dispersive, accorciando le catene di approvvigionamento per una serie di prodotti. Vi sono, infatti, evidenti vantaggi di una strategia Nearshore, tra cui una vicinanza culturale, che garantisca una comunicazione trasparente e la completa visibilità del progetto, un fuso orario simile, la conoscenza del mercato e una prossimità geografica, tra le possibili citabili. In quanto fin ora descritto, non può essere trascurato l’apporto del digitale, che se da un lato rappresenta una risorsa da meglio sfruttare per un approccio decisionale più puntuale e data driven, dall’altro sortisce una serie di effetti legati all’automazione dei processi. Sul tema, nel dossier ISPI sopraccitato, e nello specifico del contributo Deglobalizzazione: New Normal? a cura dell’economista e storico Marc Levinson si specifica come “la produzione sta diventando progressivamente meno importante per l’economia mondiale. Inoltre, riducendo la necessità di manodopera negli stabilimenti, l’automazione sta eliminando innanzitutto una delle ragioni principali che possono indurre a saldare insieme catene del valore remote. Ci sono pochi segnali di “reshoring”, il “rientro” della produzione da paesi a basso salario a paesi ad alto salario; viceversa, ci sono prove considerevoli che produttori e rivenditori stanno cercando di tenere sotto controllo i rischi diversificando le fonti di approvvigionamento di componenti chiave e prodotti finiti, anziché produrre tutto in giganteschi stabilimenti situati in Asia. Per un’azienda multinazionale, è probabile che uno stabilimento orientato all’esportazione in Messico o in Marocco vada a integrare anziché sostituire uno stabilimento in Cina. È in questo senso che la globalizzazione sembra in declino, tanto più che i governi erogano sussidi o erigono barriere per proteggere i mercati a vantaggio dei produttori nazionali”. Un nazionalismo economico, che al di là di manifestazioni più plateali è qualcosa di rintracciabile a più ampio raggio di quanto di possa pensare.

In conclusione, è evidente come la crisi da Covid-19 abbia messo le catene di approvvigionamento sotto i riflettori, facendole  emergere come vulnerabili agli shock e alle interruzioni, con molti settori in difficoltà per carenze dal lato dell'offerta in termini di manodopera specializzata, materie prime, oltre che per i vincoli di capacità logistica. Il tutto sta avvenendo nel contesto di questa “deglobalizzazione”, che tuttavia, non deve essere intesa come qualcosa di estremo, bensì in come quella che l’Economist ha definito “slowbalisation”, ovvero un rallentamento nelle tendenze di integrazione economico-finanziaria tra Paesi.

In questo contesto, in vista della ripresa, che si spera possa concretizzarsi nel 2022 e che potrebbe comunque essere accompagnata da nuove ondate pandemiche, è fondamentale conciliare i tentativi di intervento e organizzazione sulla supply chian a breve termine con visioni per il medio e lungo periodo.

 

 

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