Retail & Brexit: tra opportunità e spettro di “Brexitcrazia”

L’uscita di UK dall’EU ha rappresentato uno scossone che si somma ora alle presenti crisi pandemica e geopolitica. Il comparto retail ne esce con un’ambivalenza da saper sfruttare strategicamente

Il 23 giugno 2016 ha rappresentato un punto di svolta per la storia del continente europeo: uno Stato membro dell’Unione europea, il Regno Unito, ha espresso la volontà, tramite un referendum popolare, di uscire dall’Unione, invocando per la prima volta l’articolo 50 del Trattato sull'Unione europea (TUE). Quest’articolo disciplina un meccanismo di recesso volontario e unilaterale di un paese che, dopo un periodo di transizione, ha fatto sì che si potesse concretizzare, il 31 gennaio 2020, l’uscita de iure di UK dalle istituzioni comunitarie.

Trade and Cooperation Agreement

Nel frattempo è sorta una mole infinita di questioni da regolare in corrispondenza di tutti gli ambiti di pertinenza dell’UE. I negoziatori delle rispettive parti (capitanati in prima battuta dal francese Michel Barnier per l’UE e da David Davis per UK) hanno cercato dei punti di incontro in settori altamente interconnessi. Ciò ha portato all'Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione (Trade and Cooperation Agreement o TCA), firmato il 30 dicembre 2020 ed entrato in vigore il 1º maggio 2021. In via generale, quest’ultimo prevede:

  • un accordo di libero scambio, che prevede una collaborazione in materia economica, sociale, ambientale e nel settore della pesca;
  • una stretta collaborazione per quanto riguarda la sicurezza dei cittadini;
  • un assetto generale di governance.

Gli aspetti più legati al commercio (con annessi risvolti doganali) e al retail, hanno dovuto fare i conti con il sopraggiungere del Covid-19 e la relativa crisi. I colli di bottiglia lungo le catene di approvvigionamento hanno, infatti, indotto Downing Street a decidere unilateralmente per un continuo rinvio dell’entrata in vigore a pieno regime dei controlli doganali alle merci importate dall’UE. L’ultimo rinvio (il quarto) risale a fine aprile 2022, con la decisione di ritardare l’imposizione dei controlli sanitari e fitosanitari alla fine del 2023. Questa decisione è stata presentata da UK come una misura per contrastare l’inflazione e il costo della vita in aumento, anche in seguito al sommarsi di un ulteriore shock per l’economia globale: la guerra russa in Ucraina.

Tuttavia, come affermato in un analisi per ISPI a cura di Filippo Fasulo e Davide Tentori dal titolo “Global Britain e cigni neri”, ciò risulta essere connesso anche “all’insufficiente grado di preparazione dell’Agenzia delle Dogane britannica di far fronte a operazioni inedite, non solo per tipologia ma soprattutto per l’elevata quantità (dato che l’UE rappresenta tuttora il principale partner commerciale di Londra con una quota di oltre il 40% sugli scambi totali di merci)”.

In questo rinvio di burocrazia ad hoc a cui conformarsi, che con gioco di parole rende la “Brexitcrazia” una conseguenza assai tangibile di questa scelta, così come le file interminabili di tir bloccati sul canale della Manica, diventate simbolo delle complicazioni esistenti, il Regno Unito ha posticipato la data di entrata in vigore dell’obbligatorietà del marchio UKCA (UK Conformity Assessed).  Tale marcatura coprirà la maggior parte dei prodotti, immessi sul mercato in Gran Bretagna (Inghilterra, Galles e Scozia), che in precedenza richiedevano la marcatura CE. UKCA, in particolare, sarà necessaria a partire dal 1° gennaio 2023.

Uk, un mercato in trasformazione

Capire l’impatto di Brexit, in un contesto aggravato da crisi fortissime come la pandemia da Covid-19 e il conflitto russo in Ucraina, è estremamente complicato, come se livelli di complessità si stratificassero l’uno sull’altro. Un report pubblicato congiuntamente dalla London School of Economics, Centre for Economic Performance e UK Economic Research Council, pubblicato a giugno 2022, e dal titolo “The Big Brexit“, cerca di fare un po’ di chiarezza, esplorando  l’impatto del già citato accordo TCA tra UK e EU. Ciò che emerge chiaramente è come, dopo il referendum del 2016, l'apertura commerciale (trade openness) e la competitività delle esportazioni britanniche siano diminuite nel corso del 2021.

Livello di "apertura al commercio" di UK rispetto ad altri Stati UE tra il 2019 e il 2021 © The Economy 2030 Inquiry | The Big Brexit

Tuttavia, il report mette in luce processi di aggiustamento (più o meno lunghi a seconda che si faccia riferimento o meno ad aziende ad alta intensità di capitale) dovuti al progressivo conformarsi del business alle barriere commerciali. Molte aziende, probabilmente, incrementeranno le esportazioni anche con mercati non UE e questo è un elemento da tenere a mente per i partner commerciali europei.

A ciò si aggiunge, poi, che la più probabile eredità di lunga durata di Brexit sia la crescita più lenta di salari reale e produttività nel prossimo decennio. Le complicazioni generali, anche dal punto di vista del mercato del lavoro, si concretizzeranno nella maggiore difficoltà a trovare personale specializzato: gli operatori sul campo si lamentano, oltre alla scarsità di candidati, anche di procedure di assunzione estremamente complesse nel reclutare personale in Europa, che prima era la norma.

Impatto sul Retail

Focalizzandosi, ulteriormente, sul retail, risulta particolarmente interessante citare lo studio di RetailX pubblicato nella prima metà del 2022, che vuole fare il punto della situazione sugli impatti di Brexit sul retail, in particolare per quel che riguarda il comparto del lusso, del fashion e dell’elettronica di consumo.

LUSSO

Brexit, dal 2020 in poi, ha portato alla cancellazione dello shopping tax free in UK. Infatti, il VAT Retail Export Scheme – VAT RES permette ai residenti al di fuori dell’Unione Europea di vedersi restituito il valore dell’Iva (VAT) pagata sui beni comprati nell’UE. Tuttavia, uscendo dall’Unione, de facto la Gran Bretagna è fuori da tale regime, perdendo in termini di vantaggio competitivo nei confronti di realtà come Parigi, Milano e Madrid. È, quindi, diventata l’unico paese europeo a non offrire più tax free shopping ai turisti con grandi capacità ed intenzione di spesa, in arrivo soprattutto dai paesi del Golfo e dagli Stati Uniti.

FASHION

Secondo la UK Fashion and Textile Association (UKFT), il 98% delle aziende di moda britanniche campionate nel 2021 ha riscontrato costi più elevati a causa della burocrazia e delle pratiche burocratiche, il 92% ha subito un aumento dei costi di trasporto, l'83% ha aumentato i costi dei servizi ai clienti, il 53% ha visto cancellati ordini da clienti geograficamente in paesi dell’UE e il 44% ha riscontrato un aumento degli articoli restituiti o rifiutati a causa di costi doganali e problemi di IVA. Di conseguenza, il RetailX Fashion Sector Report 2022 ha messo in luce come il 25% dei retailer di moda sta valutando la possibilità di trasferire alcune o tutte le proprie attività altrove nell'UE per semplificare la logistica, la gestione del personale e la produzione. Il 39% si sposterebbe nell'UE se gli venissero offerti vantaggi fiscali. Il 91% desidererebbe uno schema di visto per rendere più facile per i creativi del settore operare nel Regno Unito e nell'UE. Inoltre, per i consumatori europei, la Brexit ha portato principalmente a cambiamenti nell'IVA, nei prezzi e nella facilità di acquisto e consegna di articoli di moda nel Regno Unito.

ELETTRONICA DI CONSUMO

Dal 1° gennaio 2021(con le dilazioni accordate, come precedentemente esplicitato, ora dal 2023), i prodotti di elettronica di consumo venduti nel Regno Unito devono essere certificati non in base ai criteri di valutazione della conformità dell'UE – il marchio CE – ma in base alle normative specifiche per il Regno Unito, l'UKCA. Se queste merci vengono venduti anche in Europa, devono allora anche avere il marchio CE. Va da sé che questo processo aggiunge un nuovo livello di complessità normativa per produttori e venditori di elettronica di consumo nel Regno Unito e nell'UE, poiché devono essere approvati da entrambe le autorità. Ciò rallenta l'immissione di articoli sul mercato, oltre ad avere un impatto su coloro che desiderano importare merci prodotte al di fuori del Regno Unito e dell'UE in entrambi i mercati.

Proiezioni

In conclusione, quanto brevemente descritto mira a dare una panoramica generale dello stato dell’arte di Brexit per un settore come quello del retail, ponendosi come spunto per approfondire eventuali opportunità che possano emergere per il commercio tra Italia e UK. Senza spingersi lontano del tempo, è però un dato di fatto che vi sia una reciproca attitudine favorevole agli scambi tra Italia e Regno Unito, una apprezzamento che abbraccia il Made in Italy e non solo. Lato UK, tale fascinazione su determinate realtà italiane ha incentivato un discreto sviluppo economico, basti pensare alla “Tuscany Shire”(o Chiantishire, una parte di Toscana dove molti cittadini britannici benestanti si sono trasferiti o hanno acquistato proprietà). L’import-export bilaterale è significativo in molti campi, dalla manifattura all’agroalimentare, all’aerospazio e difesa, ed è, qui, evidente come Brexit rappresenti – ad oggi – qualcosa di limitante, da comprendere al meglio nelle sue declinazioni e spingere a livello politico perché i suoi sviluppi siano il più possibile funzionali in termini socio-economici.

 

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