Superare lo stigma del benessere psicologico per aziende più etiche e attrattive

La salute mentale è ancora considerata un tabù e l’azienda non viene ritenuta un luogo sicuro in cui esprimere idee e malesseri. I dati della ricerca Bva Doxa.

Aumentano le diagnosi di burnout e lo stress lavoro correlato e per le aziende è il momento di una duplice scelta: sociale e di business. Oggi, il tema della salute psicologica e lavorativa delle persone in azienda è urgente e importante. Almeno due le considerazioni iniziali. Smarchiamo subito la prima, pratica e di business, con conseguenze dirette per le aziende: lo stato d’animo di dipendenti a rischio burnout, che vivono situazioni di stress e malessere ha conseguenze rilevanti sulle performance aziendali dove peggiora, anche, l’attrattività e la capacità di mantenere talenti. La seconda è ancora più importante e sensibile perché riguarda l’impatto etico e sociale delle aziende. Tema, questo, che vede un dibattito attivo in tempi recenti ma con una ancora scarsa diffusione degli strumenti a disposizione utili a creare nuove culture dello star bene. L’impellenza d’intervento è dettata dallo scenario di policrisi e confermata dai dati - decisamente non rassicuranti - sul benessere psicologico dei lavoratori e delle lavoratrici del nostro Paese. In occasione della Giornata Mondiale per la Salute Mentale, Mindwork, società italiana per la consulenza psicologica online in ambito aziendale, ha presentato i dati della ricerca condotta da Bva Doxa che va ad indagare il rapporto tra benessere psicologico e lavoro tra white e blue collar di medie e grandi aziende italiane. L’indagine rileva come la strada verso un modo e un mondo del lavoro sano, attento e rispettoso della persona sia ancora lunga e, al momento, parecchio tortuosa. Basti pensare che solo una persona su tre ritiene che nella propria azienda ci sia una cultura organizzativa inclusiva del benessere psicologico. Non solo: il 50% del campione coinvolto considera il luogo di lavoro un posto non sicuro dove poter esprimere le proprie idee. Di fatto, permane lo stigma della salute mentale: parlare del proprio malessere, dichiararsi vulnerabili è ancora un tabù ritenuto insormontabile.

Ingerenze intrecciate

Eppure, le conseguenze sono visibili e abbattono le barriere tra vita personale e lavorativa: una persona su due soffre di ansia o insonnia per motivi di lavoro e sperimenta stati di stress elevato. Una condizione che si va a intrecciare a importanti dinamiche sociali. È infatti fondamentale ricordare che buona parte della generazione attualmente impiegata vive spesso, nella sfera privata, un doppio carico di cura: figli e genitori o parenti anziani o malati. Tema, questo, di cui raramente le imprese si fanno carico. Un genitore su due ha bisogno di ricevere supporto dall'azienda nella gestione dei figli ma solo il 25% dichiara di riceverlo. Va peggio per i caregiver: sei su dieci dichiarano un’elevata necessità di supporto che però viene percepito solo dal 20%.

Perché si va in burnout?

In uno scenario di policrisi e di dinamiche sociali e personali che alimentano il carico cognitivo delle persone, le gocce che fanno traboccare il vaso risultano diverse a seconda delle categorie: il sovraccarico lavorativo accomuna solo in parte white e blue collar (46% e 36%): per i primi si aggiunge il mancato riconoscimento (34%), per i secondi l’assenza di equità (36%). Di fatto, emerge dall’indagine Bva Doxa, a essere maggiormente penalizzati sono i blue collar i cui contesti, le aziende di produzione, a differenza di quelle di servizi fanno più fatica a implementare misure preventive. A una maggiore esposizione del target a stress lavoro correlato corrisponde, purtroppo, un minore impegno da parte delle aziende. Si tratta anche della categoria con più difficoltà ad assentarsi dal lavoro e che, anche in situazioni di burnout ha continuato a lavorare: solo il 19% ha superato i 5 giorni di assenza a differenza di white collar (55%) e dirigenti (62%). Va però detto che il burnout non fa distinzione tra categorie: il 76% delle persone intervistate ha sperimentato nell’ultimo anno stanchezza, distress, incertezza, preoccupazione e, soprattutto sensazione di sfinimento. La conseguenza più diffusa impatta, per oltre la metà del campione, direttamente sull’azienda: calo dell’efficienza lavorativa e abbandono del posto di lavoro sono le principali exit strategy per tentare di salvaguardare la propria salute mentale. Decisioni e comportamenti che contribuiscono solo a peggiorare il problema.

Strumenti e risultati

Eppure, non solo esistono gli strumenti a supporto di aziende e lavoratori, ma anche una già nutrita casistica che rimarca la loro buona scelta. Le aziende che mettono al centro la salute mentale dei propri dipendenti risultano essere più attrattive soprattutto tra white e blue collar. La scelta di un posto di lavoro, per sei persone su dieci, è condizionata dalla presenza di servizi dedicati, considerati importanti per la quasi totalità del campione. Ma in poco più del 30% delle aziende italiane è presente un servizio di supporto psicologico, nonostante la sua messa a disposizione sia valutata positivamente sia da white (76%) che blu collar (79%). Il ritorno dell’investimento nel benessere psicologico ha, secondo i soggetti intervistati, un duplice impatto: sociale (79%) e di business, contribuendo alla sua efficienza e sostenibilità (80%). Per le aziende si tratta di una sfida importante che può vedere le realtà che stanno adottando strategie ESG in prima linea come guide: dare valore alla "s" di sociale partendo dai propri dipendenti passa dalla messa a disposizione di strumenti che, col tempo, possano sempre più prevenire che curare.

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